Zak Manzi (Salvatore Manzi), Therapy, 2003, DVD loop, 01:49, musica dei Garage Valley
L’esplorazione dei territori della patologia, in quanto filiazione della sue quotidiane esperienze, costituisce il motivo naturalmente preponderante di una ricerca che fonda, se non sempre sul partire da sé, almeno dal proprio circostante – patologia soprattutto mentale, benché tra mente e fisico esista una circolarità che non andrebbe mai dimenticata. Dalla svalutazione di tale implicazione derivano i limiti della tradizione medica occidentale, esplicitamente richiamati in Therapy (2005), ove due mani si cimentano ottusamente nel ricaricare un corpo di donna – Francesca, moglie dell’artista – come se si trattasse di un macchinario senz’anima, un lavoro che, forse più di ogni altro, evidenzia la particolare concezione del video dalla quale Zak procede. Considerandosi prettamente un pittore egli intende infatti tale medium come un antidoto in grado di conferire movimento alla staticità del quadro dipinto. La sua dichiarata fascinazione per il cinema delle origini è perciò leggibile esclusivamente in quanto interesse «per come
ad un tratto le figure prendano a muoversi e quindi a vivere. Il desiderio di trasmettere la sensazione del pulsare di un qualcosa assume infatti, per un artista, una dimensione irrefrenabile». Eppure tale aspirazione implica un rischio da non sottovalutare: «Dal momento che l’immagine in movimento, in virtù del cinema, della televisione, del web, è oggigiorno così diffusa, bisogna stare attenti a non creare un prodotto troppo vicino a quello in cui ci si imbatte solitamente. La soluzione risiede nel soffermarsi su di un’immagine e capire come porla in movimento senza allontanarsi troppo dal punto di partenza». Da qui il disinteresse per tutta la produzione cinematografica che segue le origini in quanto eccessivamente compromessa con la narrazione. Viceversa tanta parte della produzione videoartistica contemporanea sembra porsi in una condizione di subalternità linguistica rispetto al cinema: «Se per esprimere il discorso di Therapy mi fossi messo a raccontare la storia di una donna depressa, che per vivere ha bisogno di assumere psicofarmaci, avrei conseguito un esito da soap opera. C’è bisogno di tornare ad un qualcosa di più rarefatto. É tramite il prodotto rarefatto che si può tornare sia alla poesia che alla spiritualità, ma soprattutto stabilire un rapporto intimo con se stessi». L’intento di Zak è dunque, come sempre, quello di elaborare, avvalendosi di una notevole economia di mezzi linguistici, un dispositivo in grado di colpire lo spettatore come una giaculatoria. Scegliere la via della narrazione avrebbe significato cimentarsi nella costruzione di un’attrezzatura richiedente un tempo di lavorazione inversamente proporzionale a quello – rapidissimo – impiegato dagli spettatori per dimenticare quanto passivamente osservato. (S. Taccone (a cura di), Salvatore Manzi EXZAK, Phoebus Edizioni, Casalnuovo di Napoli, 2014, pp. 54-55) |
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