Salvatore Manzi, Pippo Baudo, azione pittorica, 1996, Accademia di Belle Arti di Napoli
Pippo Baudo (1996) è parte di una serie di quadri dedicati al celebre presentatore televisivo - al tempo "onnipresente" - che Salvatore Manzi realizza quando è ancora studente dell'Accademia di Belle Arti di Napoli. In quegli anni il suo maestro Ninì Sgambati avvia un processo di svuotamento del laboratorio di Pittura (Quartapittura) che prevede anche l'eliminazione dei cavalletti per dipingere. Manzi chiede al suo maestro la possibilità di spostarsi in un altro laboratorio per poter proseguire la sua ricerca pittorica. Viene ospitato nella scuola di Pittura del maestro Gianni Pisani. In quei mesi lavora ai dipinti di Pippo Baudo che abbozza ad olio su fiancate di mobili trovate tra i rifiuti per poi chiedere ai suoi compagni di corso di correggere eventuali errori commessi. L'operazione di "aggiusto" viene proposta dall'artista come un'azione pittorica concettuale per intervenire sull'opera, dare ad essa un'indicazione di partenza per poi affidarla nelle "mani" di altri autori. Un'operazione che è in linea con gli interessi di Manzi sull'autorialità dell'opera d'arte e sull'assenza dell'artista.
La vicenda di Salvatore-Zak non sarebbe stata la stessa senza la formazione impartitagli presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli dal maestro Ninì Sgambati, titolare della quarta cattedra di pittura – affiancato dal prof. Franz Iandolo – nella prima metà degli anni novanta. All’epoca Sgambati – di una generazione più giovane rispetto alla media degli altri professori di pittura e di scultura, percepito come portatore di istanze, almeno relativamente al contesto in cui si trova, fortemente innovative – costituisce una presenza alquanto anomala e suscita opinioni assai controverse: la quasi totalità dei suoi allievi lo apprezza fino, in alcuni casi, alla mitizzazione; altri lo accusano di strumentalizzare i ragazzi ai suoi fini.
Il pensiero di Sgambati trova il suo sbocco concreto nelle attività del gruppo Quartapittura – poi Esc –, di cui Salvatore è uno dei fondatori, composto appunto dai due docenti e da alcuni allievi. Sgambati parte dalla constatazione del carattere profondamente antidemocratico delle leggi che governano l’attuale sistema dell’arte, ove il nome dell’artista conta assai più della ricerca artistica in sé. Se quest’ultima appare progressivamente condannata ad un effettivo oblio, la figura dell’artista si carica così di un divismo che pregiudica ogni prospettiva di un’arte come esperienza in grado di trascendere e, meglio ancora, di eliminare le gerarchie sociali. L’antidoto a tale degenerazione è individuato nella spersonalizzazione dell’autorialità per mezzo del lavoro di gruppo. In fondo l’arte di tanti secoli addietro, fino ancora alle soglie del XIV secolo, non è forse opera di maestranze collettive rimaste anonime? Le monumentali cattedrali romaniche e gotiche sono forse inferiori agli edifici progettati dalle grandi individualità di età rinascimentale e barocca?
L’esito estremo di tali ricerche consisterebbe nella messa a punto di un’arte da supermarket, espressione adoperata naturalmente in un senso tutt’altro che dispregiativo. Un arte cioè che, finalmente liberata dalla sua funzione di status simbol, risulti alla portata del borsellino di tutti, ma senza che il livello qualitativo venga minimamente scalfito. Si tratta di idee non certo inedite ed enunciarne le fonti e/o i precedenti appare un esercizio perfino superfluo, né è opportuno – in questa sede – addentrarsi in considerazioni sulle possibilità di successo di un progetto di tal specie da un punto di vista delle ragioni strettamente socio-economiche.
Basterà rilevare che l’arte da supermarket, pur, almeno sulla carta, meritevole di qualificare l’esistenza quotidiana di ogni individuo per mezzo di quel quid di sana creatività di cui è portatrice, possiede innegabilmente alcuni presupposti in comune con l’arte più immediatamente improntata a ragioni commerciali. Entrambe cioè non concepiscono l’attività artistica come una sostanziale manifestazione di libertà – sia pure sempre necessariamente implicata in una strenua lotta attorno alle sue condizioni di possibilità – ma subordinano quest’ultima ad esigenze di vendibilità. Che l’una miri al miglioramento delle condizioni di vita, mentre l’altra risponda alle sollecitazioni più immediate di un mercato di lusso non comporta alcuna differenza: in entrambi i casi ci troviamo al di fuori di un arte come irriducibile, benché costantemente minacciata, necessità interiore. [...]
Ai fini del nostro discorso l’esperienza di Quartapittura-Esc è interessante nella misura in cui ci aiuta a comprendere il processo che porta Salvatore-Zak all’elaborazione della teoria dell’ assenza dell’autore, alla quale, almeno fino al 2002, è improntata tutta la sua attività. Le pratiche di gruppo che si svolgono sotto l’egida di Sgambati, pur partendo, come si è visto, da una posizione radicalmente contestataria, sembrano sempre scaturire da una visione quasi neopositivista: egli dimostra cioè di nutrire una fiducia non celata in una dimensione costruttiva delle arti visive nell’ambito del tardo capitalismo. Inoltre più che ad un fenomeno di assenza dell’autore siamo di fronte piuttosto ad una “socializzazione dell’autorialità” o “autorialità collettiva”. Nell’attività matura di Zak Manzi, coadiuvato dall’insostituibile Angelo Rossi, di cui di qui a poco verrò a parlare, ogni pulsione progressiva viene troncata sul nascere dalla veemenza degli esiti demistificanti che, volente o nolente, si vengono a determinare. Il prodotto artistico assurge poi, per la prima volta nella storia, ad un’autonomia totale dall’identità dell’autore – in virtù della completa scissione tra “creatore” e “firmatario”.
Episodi come quello della tesi, intitolata seccamente quanto significativamente Assenza, con la quale Salvatore si diploma facendola discutere a terzi (1996), sono solo i segni premonitori di quanto sta per avvenire. A quel tempo egli sa già bene che non sarà mai un artista di quelli senza infamia e senza lode, ma non gli è ancora perfettamente chiaro il come ciò potrà avvenire. Preliminare è intanto la revisione del nome – davvero troppo meridionale per poter fare breccia nel meneghinocentrico sistema dell’arte contemporanea! – che sottopone così ad una violenta quanto subitanea censura per sostituzione il cui effetto traumatizzante si rivelerà in tutta la sua portata solo in seguito. (Taccone Stefano, ExZak, Phoebus, 2014, Casalnuovo di Napoli, pp. 17-19)
Il pensiero di Sgambati trova il suo sbocco concreto nelle attività del gruppo Quartapittura – poi Esc –, di cui Salvatore è uno dei fondatori, composto appunto dai due docenti e da alcuni allievi. Sgambati parte dalla constatazione del carattere profondamente antidemocratico delle leggi che governano l’attuale sistema dell’arte, ove il nome dell’artista conta assai più della ricerca artistica in sé. Se quest’ultima appare progressivamente condannata ad un effettivo oblio, la figura dell’artista si carica così di un divismo che pregiudica ogni prospettiva di un’arte come esperienza in grado di trascendere e, meglio ancora, di eliminare le gerarchie sociali. L’antidoto a tale degenerazione è individuato nella spersonalizzazione dell’autorialità per mezzo del lavoro di gruppo. In fondo l’arte di tanti secoli addietro, fino ancora alle soglie del XIV secolo, non è forse opera di maestranze collettive rimaste anonime? Le monumentali cattedrali romaniche e gotiche sono forse inferiori agli edifici progettati dalle grandi individualità di età rinascimentale e barocca?
L’esito estremo di tali ricerche consisterebbe nella messa a punto di un’arte da supermarket, espressione adoperata naturalmente in un senso tutt’altro che dispregiativo. Un arte cioè che, finalmente liberata dalla sua funzione di status simbol, risulti alla portata del borsellino di tutti, ma senza che il livello qualitativo venga minimamente scalfito. Si tratta di idee non certo inedite ed enunciarne le fonti e/o i precedenti appare un esercizio perfino superfluo, né è opportuno – in questa sede – addentrarsi in considerazioni sulle possibilità di successo di un progetto di tal specie da un punto di vista delle ragioni strettamente socio-economiche.
Basterà rilevare che l’arte da supermarket, pur, almeno sulla carta, meritevole di qualificare l’esistenza quotidiana di ogni individuo per mezzo di quel quid di sana creatività di cui è portatrice, possiede innegabilmente alcuni presupposti in comune con l’arte più immediatamente improntata a ragioni commerciali. Entrambe cioè non concepiscono l’attività artistica come una sostanziale manifestazione di libertà – sia pure sempre necessariamente implicata in una strenua lotta attorno alle sue condizioni di possibilità – ma subordinano quest’ultima ad esigenze di vendibilità. Che l’una miri al miglioramento delle condizioni di vita, mentre l’altra risponda alle sollecitazioni più immediate di un mercato di lusso non comporta alcuna differenza: in entrambi i casi ci troviamo al di fuori di un arte come irriducibile, benché costantemente minacciata, necessità interiore. [...]
Ai fini del nostro discorso l’esperienza di Quartapittura-Esc è interessante nella misura in cui ci aiuta a comprendere il processo che porta Salvatore-Zak all’elaborazione della teoria dell’ assenza dell’autore, alla quale, almeno fino al 2002, è improntata tutta la sua attività. Le pratiche di gruppo che si svolgono sotto l’egida di Sgambati, pur partendo, come si è visto, da una posizione radicalmente contestataria, sembrano sempre scaturire da una visione quasi neopositivista: egli dimostra cioè di nutrire una fiducia non celata in una dimensione costruttiva delle arti visive nell’ambito del tardo capitalismo. Inoltre più che ad un fenomeno di assenza dell’autore siamo di fronte piuttosto ad una “socializzazione dell’autorialità” o “autorialità collettiva”. Nell’attività matura di Zak Manzi, coadiuvato dall’insostituibile Angelo Rossi, di cui di qui a poco verrò a parlare, ogni pulsione progressiva viene troncata sul nascere dalla veemenza degli esiti demistificanti che, volente o nolente, si vengono a determinare. Il prodotto artistico assurge poi, per la prima volta nella storia, ad un’autonomia totale dall’identità dell’autore – in virtù della completa scissione tra “creatore” e “firmatario”.
Episodi come quello della tesi, intitolata seccamente quanto significativamente Assenza, con la quale Salvatore si diploma facendola discutere a terzi (1996), sono solo i segni premonitori di quanto sta per avvenire. A quel tempo egli sa già bene che non sarà mai un artista di quelli senza infamia e senza lode, ma non gli è ancora perfettamente chiaro il come ciò potrà avvenire. Preliminare è intanto la revisione del nome – davvero troppo meridionale per poter fare breccia nel meneghinocentrico sistema dell’arte contemporanea! – che sottopone così ad una violenta quanto subitanea censura per sostituzione il cui effetto traumatizzante si rivelerà in tutta la sua portata solo in seguito. (Taccone Stefano, ExZak, Phoebus, 2014, Casalnuovo di Napoli, pp. 17-19)