Salvatore Manzi, Immagine alcuna, a cura di Nicola Zucaro, Castel Sant'Elmo, Chiesa di Sant'Erasmo, Saaci Gallery, Napoli, 16 marzo 2019 (Foto di Danilo Donzelli)
Immagine alcuna
Un contesto insolito, un luogo trasformato in spazio di “azione”, un evento che intercorre tra corpi, territori, soggettività e dimore. Una scelta, quella di Salvatore Manzi, che a prima vista mette in risalto, tramite installazioni che fungono da interferenze, i conflitti politici che genera il suo tipo di intervento in uno spazio già fortemente caratterizzato come quello di una chiesa, quella di Sant’Erasmo a Napoli. Ci troviamo difronte ad un’analisi contigua che va al di là delle divisioni disciplinari e che rimanda al dialogo storico/politico mai interrotto nel corso dei secoli tra arte e religione. Un’indagine fenomenologica della religione, della fede e del sacro rivolta al recupero della matrice storica del vissuto contemporaneo in termini di memoria e di cultura popolare e materiale, dove la ricerca creativa personale di Manzi, già celata in una notevole complessità astrale/astratta, è in divenire.
L'artista fa del suo lavoro un personalissimo metodo di indagine sul ruolo della scultura, dell’architettura, dell’abitare, ragionando sulle motivazioni culturali alla base di queste, rifacendosi, seppur in maniera antitetica, a quelle questioni aperte negli anni Settanta, quando, nell'ambito dell’arte pubblica, la scultura, era alla ricerca del ruolo da assumere in rapporto alla storia, alla memoria e alla socialità.
Per Manzi, il suo vissuto mnemonico e la sua esperienza spirituale legate a quella artistica sono fondamentali per poter determinare in parte questa mostra che si presenta come un’analisi degli oggetti concreti e dei segni dell’uomo legati all’atteggiamento della civiltà europeo-occidentale attraverso le forme culturali del mondo popolare subalterno. Percorrendo quei regimi di luce e ombra propri di un qualsivoglia dispositivo, distribuisce e analizza il visibile e l’invisibile: tramite trasparenze materiali, estetiche del vissuto, spazi espositivi in tensione, folklore, simbolo, mito e ritualità, assetta un ambiente istituzionale fondendo arte contemporanea e architettura. Affronta la scultura in un'arcaica chiave antropologica, stimolato dagli oggetti dell’uomo, dai suoi spazi e dalle sue relazioni.
È chiaro che in questa mostra lo scenario culturale dell’occidente e tutto il paesaggio formato dai suoi stessi utenti rappresenta il luogo, lo spazio e il campo operativo dove l’artista firma/ferma/forma la sua pratica. Il tempo di lettura, invece, è la contemporaneità, la considerazione della storia. Qui la considerazione di Manzi, allora, diventa intempestiva. Lo è perché come direbbe Giorgio Agamben "vede il suo tempo", lo è perché è capace di afferrarlo ponendosi in una singolare relazione con esso affrontandolo come una sorta di anacronismo, una frattura, prendendone però le distanze. Citando ancora Agamben potremmo dire che vede "il sorriso demente del suo secolo" e che se "essere contemporanei è innanzitutto una questione di coraggio", la questione di Manzi ne è la prova. Va da sé che qui abbiamo a che fare con aspetti che coesistono tra arte e società ma anche con quegli aspetti dove l’arte ha a che fare con la politica e con la vita. È di primaria importanza, sia da parte dell’artista, sia da parte mia, dare un giusto peso a questi binomi per non restare intrappolati in utopie o cadere in ideologie cieche. È analizzando le sue frequenti operazioni artistiche deambulatorie, definite cosmizzazioni, dove si riflette la storia, l’anima del popolo e quella vita/movimento che egli esprime con le sue linee e le sue forme ancestrali, che riusciamo a capire la strada da percorrere per arrivare a comprendere le reali motivazioni di questa mostra. L’artista nella sua mostra non mette in atto una contraddizione, bensì una differenza dove il dialogo avviene tra due estremità, tra due forze opposte che, mantenendo viva ogni realtà, creano armonia ed equilibrio. Tenendo ben presente il suo ministero di pastore evangelico e il contesto in cui la mostra si svolge, probabilmente il filo conduttore da tenere presente è proprio questo: delocalizzazione, relazione e dialogo come libertà e rivoluzione. È da queste riflessioni che, a mio avviso, si sviluppa la ricerca di Manzi.
Un percorso espositivo site specific che si articola in due momenti disgiunti per la variabilità del medium e che trovano, poi, consonanza nell’ambiente che compone la sede espositiva. Un gioco di relazione tra spazio costruito e contesto, dove gli oggetti, situati in un vuoto assoluto, e installati dall’artista con rigore e austerità, diventano pura forma producendo anche della sottile ironia.
In Immagine alcuna vediamo “sacrificato” il “marchio” dell’artista nell’antropomorfismo (se così possiamo dire) che si materializza e si fa immagine nei suoi pali (Foresta cosmica) e nella sua luminaria (Settenari) esposta e scagliata nel "buio" con l’intento di dissolvere e, allo stesso tempo, ricostruire l’essenziale dell’immagine e il suo rovescio. Una poesia profetica del rito (Legge perpetua) mostra delle mani femminili che piegano su se stesso un panno di lino. Un culto, un rito che fa trasparire l’essenza del femminile ma anche tutto ciò che esalta la dedizione e l’abnegazione della pratica quotidiana secondo il pensiero giudaico-cristiani.
Dunque, rifacendosi al precetto aniconico del Decalogo, Manzi ci mostra anche il suo interesse per quella ricerca sulla natura del linguaggio artistico, ossia il concetto, dove l’idea si esprime linguisticamente riflettendo sul rapporto tra rappresentazione iconica e verbale con quella povertà/essenzialità suggestiva,per la quale tutta la creatività si risolve in pochi elementi definitivi e poche forme “indistruttibili”. Il titolo della mostra nasce da un riferimento biblico ben preciso: «Non ti farai immagine alcuna…», (Esodo 20:4), dove la posizione dell’artista rispetto al tema dell’idolo e dell’immagine è critica fin dall’inizio rifacendosi indirettamente, o forse no, a quel discorso espresso da Debord nelle sue diverse tesi de La società dello spettacolo. Da questo scaturisce il tentativo di cogliere l’attualità dei modi della vita quotidiana in relazione alla centralità delle immagini e in relazione a ciò che queste producono. La possibile spettacolarità di cui parla opportunamente Manzi è situata in uno strano confine, in quei punti di vertigine, dove la vita coincide con l’universo della multimedialità e con il mondo delle tecnoimmagini, sempre a un passo dalla spettacolarità prodotta dal mondo dell’universo mediale o virtuale, dove la vita accelera il suo corso e dove non c’è frammento quotidiano che non sia carico di elaborazione estetica e dove tutto questo coincide con quegli ordini e con quegli statuti gerarchici simbolici imposti. Quei territori in cui avviene, da sempre avviene, la formazione sociale e culturale.
Attenendosi alla spettacolarità del mondo della vita e al mondo degli eventi mediali, ma lungi dalla critica apocalittica dei simulacri e dai discorsi retorici, l’artista incontra il suo “confine”; ed è proprio in questo momento che sogna l’opera dell’arte. Le sue immagini/sculture/installazioni, già cariche di significato, poste in uno “spazio nuovo”, annunciano ciò che questo intervento è per lui: il superamento dell’icona come per farci percepire quel “silenzio” per dire Dio totalmente altro. Veniamo assaliti da un’opacità che è la creazione della sua stessa “icona”, e che, posta in un assoluto realismo e in un assoluto silenzio, diventa quella «porta regale» attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si trasfigura il visibile: si indaga il sacro per poter arrivare alla definitiva costruzione di una “immagine alcuna”, pura ma ruvida. Si tratta di qualcosa che costituisce l’altro del visibile, di qualcosa che rende il comunicare destabilizzante e fragile, di un qualcosa che ci fa vacillare. Ci troviamo in un evento che gioca una partita ai bordi tra l’umano e qualcosa che va oltre la possibilità dell’umano stesso; in un evento che si produce in un archi-spazialità (spazialità minima/spaziosità dell’apertura), come gioco di una spaziatura di presenze-assenze.
Questa considerazione dello spazio rende possibile il verificarsi dell’evento dove l’immagine raggiunge la sua singolarità, il suo stato celeste, ossia la forza mobilitata per creare il vuoto, per liberarsi della memoria e della ragione, per poter accedere all’indeterminato. Come l’immagine accede all’indeterminato, così pure lo spazio gode di potenzialità, seppur esigua, nella misura in cui questo offrendoci la sua vastità e la sua specificità si trasforma liquidamente in uno spazio “senza qui né altrove”. Manzi, quindi, ci mostra l’immagine sia come energia dissipativa, come strumento della fine,in quell’analisi/ rapporto di prossimità divergente fra l’immagine e il sacrificio; sia come ritornello che mediante le sue piegature, tramite il video, fanno dell’immagine un processo, un’immagine sempre sul punto di prendere forma che esaurisce, tramite la ripetizione, analogamente alla prima operazione artistica, la potenzialità dello spazio magnetico del monitor: una voce intona “Oilì oilà viva la libertà”, un’evocazione, un’invocazione che scandisce l’immagine facendone non più una rappresentazione ma un movimento dello spirito. È in questi termini che l’immagine assume tutta la sua complessità divenendo un soffio, quel soffio vitale che tocca le radici della nostra esistenza. Quello che per Manzi conta nell’immagine, e dell’immagine, è questa forsennata energia che fa sì che non duri a lungo, ma si confonda, restando furtiva, messa fuori e davanti agli occhi, mostrandoci la sua forza, la sua energia, il suo impulso e la sua intensità, come ciò che avviene nel miracolo di Sant’Erasmo.
Non è facile comprendere il senso esatto di questa mostra: qui si elabora un evento in cui è possibile attraversare, tramite l’arte, – e come solo l’arte è capace di fare – l’universo della multimedialità (arcaica e attuale) cercando di comprendere quella riduzione ad immagine del reale interrogandosi tra comunicazione e potere mediante diversi medium, tracciando pericolosamente, quel mobile confine tra il nuovo bene e il nuovo male; significa dire, infine, il “politico”. Inoltre, veniamo esposti a quelle corrispondenze tra la creazione materiale e la creazione spirituale mediante l’incontro dell’oggetto sensibile e dell’oggetto di pensiero, laddove ha origine l’equivoco, laddove si unisce anima e corpo in un estensione dello spazio e del tempo, al di là, al di sopra di ogni manifestazione sensibile. Un’indagine tra il corporeo e lo spirituale, tra l’individuo e il suo universo, tra oggetto di pensiero e soggetto pensante mediante l’attraversamento del simbolo e dello spazio dove la vita quotidiana si svolge.
Salvatore è un esploratore, uno sperimentatore: un viaggiatore cosmico. In immagine alcuna le cose avvengono in profondità e in altezza: una vita; il silenzio; il segreto. Questo è quello che io ho saputo vedere.
Nicola Zucaro
Un contesto insolito, un luogo trasformato in spazio di “azione”, un evento che intercorre tra corpi, territori, soggettività e dimore. Una scelta, quella di Salvatore Manzi, che a prima vista mette in risalto, tramite installazioni che fungono da interferenze, i conflitti politici che genera il suo tipo di intervento in uno spazio già fortemente caratterizzato come quello di una chiesa, quella di Sant’Erasmo a Napoli. Ci troviamo difronte ad un’analisi contigua che va al di là delle divisioni disciplinari e che rimanda al dialogo storico/politico mai interrotto nel corso dei secoli tra arte e religione. Un’indagine fenomenologica della religione, della fede e del sacro rivolta al recupero della matrice storica del vissuto contemporaneo in termini di memoria e di cultura popolare e materiale, dove la ricerca creativa personale di Manzi, già celata in una notevole complessità astrale/astratta, è in divenire.
L'artista fa del suo lavoro un personalissimo metodo di indagine sul ruolo della scultura, dell’architettura, dell’abitare, ragionando sulle motivazioni culturali alla base di queste, rifacendosi, seppur in maniera antitetica, a quelle questioni aperte negli anni Settanta, quando, nell'ambito dell’arte pubblica, la scultura, era alla ricerca del ruolo da assumere in rapporto alla storia, alla memoria e alla socialità.
Per Manzi, il suo vissuto mnemonico e la sua esperienza spirituale legate a quella artistica sono fondamentali per poter determinare in parte questa mostra che si presenta come un’analisi degli oggetti concreti e dei segni dell’uomo legati all’atteggiamento della civiltà europeo-occidentale attraverso le forme culturali del mondo popolare subalterno. Percorrendo quei regimi di luce e ombra propri di un qualsivoglia dispositivo, distribuisce e analizza il visibile e l’invisibile: tramite trasparenze materiali, estetiche del vissuto, spazi espositivi in tensione, folklore, simbolo, mito e ritualità, assetta un ambiente istituzionale fondendo arte contemporanea e architettura. Affronta la scultura in un'arcaica chiave antropologica, stimolato dagli oggetti dell’uomo, dai suoi spazi e dalle sue relazioni.
È chiaro che in questa mostra lo scenario culturale dell’occidente e tutto il paesaggio formato dai suoi stessi utenti rappresenta il luogo, lo spazio e il campo operativo dove l’artista firma/ferma/forma la sua pratica. Il tempo di lettura, invece, è la contemporaneità, la considerazione della storia. Qui la considerazione di Manzi, allora, diventa intempestiva. Lo è perché come direbbe Giorgio Agamben "vede il suo tempo", lo è perché è capace di afferrarlo ponendosi in una singolare relazione con esso affrontandolo come una sorta di anacronismo, una frattura, prendendone però le distanze. Citando ancora Agamben potremmo dire che vede "il sorriso demente del suo secolo" e che se "essere contemporanei è innanzitutto una questione di coraggio", la questione di Manzi ne è la prova. Va da sé che qui abbiamo a che fare con aspetti che coesistono tra arte e società ma anche con quegli aspetti dove l’arte ha a che fare con la politica e con la vita. È di primaria importanza, sia da parte dell’artista, sia da parte mia, dare un giusto peso a questi binomi per non restare intrappolati in utopie o cadere in ideologie cieche. È analizzando le sue frequenti operazioni artistiche deambulatorie, definite cosmizzazioni, dove si riflette la storia, l’anima del popolo e quella vita/movimento che egli esprime con le sue linee e le sue forme ancestrali, che riusciamo a capire la strada da percorrere per arrivare a comprendere le reali motivazioni di questa mostra. L’artista nella sua mostra non mette in atto una contraddizione, bensì una differenza dove il dialogo avviene tra due estremità, tra due forze opposte che, mantenendo viva ogni realtà, creano armonia ed equilibrio. Tenendo ben presente il suo ministero di pastore evangelico e il contesto in cui la mostra si svolge, probabilmente il filo conduttore da tenere presente è proprio questo: delocalizzazione, relazione e dialogo come libertà e rivoluzione. È da queste riflessioni che, a mio avviso, si sviluppa la ricerca di Manzi.
Un percorso espositivo site specific che si articola in due momenti disgiunti per la variabilità del medium e che trovano, poi, consonanza nell’ambiente che compone la sede espositiva. Un gioco di relazione tra spazio costruito e contesto, dove gli oggetti, situati in un vuoto assoluto, e installati dall’artista con rigore e austerità, diventano pura forma producendo anche della sottile ironia.
In Immagine alcuna vediamo “sacrificato” il “marchio” dell’artista nell’antropomorfismo (se così possiamo dire) che si materializza e si fa immagine nei suoi pali (Foresta cosmica) e nella sua luminaria (Settenari) esposta e scagliata nel "buio" con l’intento di dissolvere e, allo stesso tempo, ricostruire l’essenziale dell’immagine e il suo rovescio. Una poesia profetica del rito (Legge perpetua) mostra delle mani femminili che piegano su se stesso un panno di lino. Un culto, un rito che fa trasparire l’essenza del femminile ma anche tutto ciò che esalta la dedizione e l’abnegazione della pratica quotidiana secondo il pensiero giudaico-cristiani.
Dunque, rifacendosi al precetto aniconico del Decalogo, Manzi ci mostra anche il suo interesse per quella ricerca sulla natura del linguaggio artistico, ossia il concetto, dove l’idea si esprime linguisticamente riflettendo sul rapporto tra rappresentazione iconica e verbale con quella povertà/essenzialità suggestiva,per la quale tutta la creatività si risolve in pochi elementi definitivi e poche forme “indistruttibili”. Il titolo della mostra nasce da un riferimento biblico ben preciso: «Non ti farai immagine alcuna…», (Esodo 20:4), dove la posizione dell’artista rispetto al tema dell’idolo e dell’immagine è critica fin dall’inizio rifacendosi indirettamente, o forse no, a quel discorso espresso da Debord nelle sue diverse tesi de La società dello spettacolo. Da questo scaturisce il tentativo di cogliere l’attualità dei modi della vita quotidiana in relazione alla centralità delle immagini e in relazione a ciò che queste producono. La possibile spettacolarità di cui parla opportunamente Manzi è situata in uno strano confine, in quei punti di vertigine, dove la vita coincide con l’universo della multimedialità e con il mondo delle tecnoimmagini, sempre a un passo dalla spettacolarità prodotta dal mondo dell’universo mediale o virtuale, dove la vita accelera il suo corso e dove non c’è frammento quotidiano che non sia carico di elaborazione estetica e dove tutto questo coincide con quegli ordini e con quegli statuti gerarchici simbolici imposti. Quei territori in cui avviene, da sempre avviene, la formazione sociale e culturale.
Attenendosi alla spettacolarità del mondo della vita e al mondo degli eventi mediali, ma lungi dalla critica apocalittica dei simulacri e dai discorsi retorici, l’artista incontra il suo “confine”; ed è proprio in questo momento che sogna l’opera dell’arte. Le sue immagini/sculture/installazioni, già cariche di significato, poste in uno “spazio nuovo”, annunciano ciò che questo intervento è per lui: il superamento dell’icona come per farci percepire quel “silenzio” per dire Dio totalmente altro. Veniamo assaliti da un’opacità che è la creazione della sua stessa “icona”, e che, posta in un assoluto realismo e in un assoluto silenzio, diventa quella «porta regale» attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si trasfigura il visibile: si indaga il sacro per poter arrivare alla definitiva costruzione di una “immagine alcuna”, pura ma ruvida. Si tratta di qualcosa che costituisce l’altro del visibile, di qualcosa che rende il comunicare destabilizzante e fragile, di un qualcosa che ci fa vacillare. Ci troviamo in un evento che gioca una partita ai bordi tra l’umano e qualcosa che va oltre la possibilità dell’umano stesso; in un evento che si produce in un archi-spazialità (spazialità minima/spaziosità dell’apertura), come gioco di una spaziatura di presenze-assenze.
Questa considerazione dello spazio rende possibile il verificarsi dell’evento dove l’immagine raggiunge la sua singolarità, il suo stato celeste, ossia la forza mobilitata per creare il vuoto, per liberarsi della memoria e della ragione, per poter accedere all’indeterminato. Come l’immagine accede all’indeterminato, così pure lo spazio gode di potenzialità, seppur esigua, nella misura in cui questo offrendoci la sua vastità e la sua specificità si trasforma liquidamente in uno spazio “senza qui né altrove”. Manzi, quindi, ci mostra l’immagine sia come energia dissipativa, come strumento della fine,in quell’analisi/ rapporto di prossimità divergente fra l’immagine e il sacrificio; sia come ritornello che mediante le sue piegature, tramite il video, fanno dell’immagine un processo, un’immagine sempre sul punto di prendere forma che esaurisce, tramite la ripetizione, analogamente alla prima operazione artistica, la potenzialità dello spazio magnetico del monitor: una voce intona “Oilì oilà viva la libertà”, un’evocazione, un’invocazione che scandisce l’immagine facendone non più una rappresentazione ma un movimento dello spirito. È in questi termini che l’immagine assume tutta la sua complessità divenendo un soffio, quel soffio vitale che tocca le radici della nostra esistenza. Quello che per Manzi conta nell’immagine, e dell’immagine, è questa forsennata energia che fa sì che non duri a lungo, ma si confonda, restando furtiva, messa fuori e davanti agli occhi, mostrandoci la sua forza, la sua energia, il suo impulso e la sua intensità, come ciò che avviene nel miracolo di Sant’Erasmo.
Non è facile comprendere il senso esatto di questa mostra: qui si elabora un evento in cui è possibile attraversare, tramite l’arte, – e come solo l’arte è capace di fare – l’universo della multimedialità (arcaica e attuale) cercando di comprendere quella riduzione ad immagine del reale interrogandosi tra comunicazione e potere mediante diversi medium, tracciando pericolosamente, quel mobile confine tra il nuovo bene e il nuovo male; significa dire, infine, il “politico”. Inoltre, veniamo esposti a quelle corrispondenze tra la creazione materiale e la creazione spirituale mediante l’incontro dell’oggetto sensibile e dell’oggetto di pensiero, laddove ha origine l’equivoco, laddove si unisce anima e corpo in un estensione dello spazio e del tempo, al di là, al di sopra di ogni manifestazione sensibile. Un’indagine tra il corporeo e lo spirituale, tra l’individuo e il suo universo, tra oggetto di pensiero e soggetto pensante mediante l’attraversamento del simbolo e dello spazio dove la vita quotidiana si svolge.
Salvatore è un esploratore, uno sperimentatore: un viaggiatore cosmico. In immagine alcuna le cose avvengono in profondità e in altezza: una vita; il silenzio; il segreto. Questo è quello che io ho saputo vedere.
Nicola Zucaro