Salvatore Manzi, Colori delicati, 2009, azione, installazione. Emergency room, a cura di Thierry Geoffroy e Julia Draganovic, Pan, Palazzo delle Arti di Napoli, Napoli.
Non è un video, ad esempio, né ha a che fare con alcun altro strumento tecnologico, ma riduce il momento costruttivo a quello minimo del ready-made aiutato, la prima opera che, all’inizio della primavera del 2009, apre la serie, Colori delicati, semplicemente una bacinella contenente una bandiera italiana a mollo, come pronta per essere lavata a mo’ di capo d’abbigliamento, concepita per la tappa napoletana, ospitata al PAN, della mostra Emergency Room, il cui peculiare format, ideato dall’artista e curatore franco-danese Thierry Geoffroy detto Colonel, prevedendo che, giorno dopo giorno, ogni artista sia chiamato a presentare un’opera che faccia riferimento ad una “emergenza” verificatasi nelle ultime ventiquattro ore e quindi a discuterne con i curatori – Francesca Boenzi e Julia Draganovic, oltre a Thierry Geoffroy –, gli altri artisti partecipanti ed il pubblico convenuto, poco si adatta alla poetica di Salvatore, che sulla adeguata distanza da tenere tra un’arte che aderisce strettamente alla cronaca, rischiando di divenire indistinguibile dalla controinformazione, ed un’arte che la trascende, rischiando di rendere indistinguibile il riferimento al presente, ha dedicato lunghe riflessioni negli anni precedenti.
Come prevedibile, a Salvatore viene rimproverato di aver proposto un’opera che, al di là del suo pregio intrinseco, «non rispetta il format», ma a tale rilievo, assai consueto nell’ambito di Emergency Room, egli reagisce in maniera alquanto inconsueta: non lasciando scivolare la questione, né, al contrario, tentando di convincere dell’attinenza al format, come per lo più tendono a fare gli altri artisti, ma osservando candidamente, a sorpresa, che «infatti io il format non lo condivido». Ma è proprio vero che Colori delicati non si confà al format di Emergency Room non riferendosi alle ultime ventiquattro ore? Per quale motivo, in altre parole, la bandiera italiana ha bisogno di un lavaggio a mano? Siamo nei primi mesi del 2009, ovvero nell’anno che Giorgio Bocca analizzerà in un libro dall’eloquente titolo Annus horribilis – che esce nel gennaio 2010 e dunque praticamente all’indomani dei fatti in oggetto –, riferendosi molto meno alla crisi globale che alle politiche del governo italiano ed alla tanto discussa figura di colui che lo presiede, e, benché non tutte le nefandezze cui il decano del giornalismo italiano fa riferimento nel libro si siano ancora verificate o siano avanzate al medesimo stato, le presunte riforme targate Gelmini-Tremonti, il reato di clandestinità sponsorizzato da Maroni e, naturalmente, varie leggi e leggine ad personam – in quel momento va forte il Lodo Alfano – sono questioni già sul tappeto e dunque di panni da lavare ce ne sarebbero eccome… Ma, che Salvatore ne sia consapevole o meno – e probabilmente non lo è – è possibile individuare nella sua opera anche una connessione più specifica – e concernente appunto le famose ventiquattro ore richieste – se si considera che proprio quel giorno si sta celebrando il congresso che sancisce la nascita ufficiale del Popolo della Libertà, ovvero di un partito che i loro promotori tendono più o meno surrettiziamente ad accreditare come l’autentico partito degli italiani, il partito “dei più italiani tra gli italiani” – e, come già avveniva per Forza Italia attingono a piene mani ad un immaginario che appartiene appunto all’intero paese e non esclusivamente ad una parte, porzione limitata che inevitabilmente spetta rappresentare ad una compagine che si definisce appunto “partito” –, quando nei fatti il minimo che si possa dire è che esso divide perniciosamente il popolo italiano. (Taccone Stefano, ExZak, Phoebus, 2014, Casalnuovo di Napoli, pp. 78-79) |