Zak Manzi (Salvatore Manzi), Burnout, 2005, DVD Loop, 03:48, musica di Giuseppe Fontanella. Courtesy Umberto Di Marino Arte Contemporanea
Il profondo distacco psicologico che il medico assume nei confronti dei suoi pazienti, motivo di grave restrizione delle possibilità di guarigione di questi ultimi, va considerato a sua volta una malattia. Burnout (2005), che costituisce la sua importante personale presso lo spazio giuglianese di Umberto Di Marino, reca un titolo ispirato alla sindrome omonima, collocandosi a soli tre mesi di distanza da Therapy. Attingendo ancora una volta al serbatoio delle sue personali esperienze, anche, come in questo caso, a quelle meno piacevoli da ricordare e che si sarebbe tentati di rimuovere, Zak costruisce, con l’ausilio della musica di Giuseppe Fontanella, chitarrista dei 24 GRANA, un congegno in grado non solo di rappresentare tale condizione, ma di infonderla pericolosamente, per via empatica, nello spettatore stesso.
«Quella condizione per cui si diviene non più capaci di osservare con curiosità colui che ti è davanti. Pensi di vivere situazioni già ampiamente definite ed escludi l’eventualità che possano essere altro. Questo è il burnaout a cui penso io». Ma tale disturbo non è ascrivibile al solo ambito medico, esso interessa anche contesti lavorativi differenti: «Qualsiasi impiego tu svolga, allorché ti sei convinto che il tuo superiore corrisponda a quelle due o tre caratteristiche che tu individui in lui, è finita. Non riesci più a guardare oltre quello che la tua mente ha deciso che quella persona sia, che quell’ambiente di lavoro sia. Quando quelle quattro mura, quel capannone, quel cantiere, quel terreno assumono per te un aspetto immutabile, sei in preda del burnout». Confermando la sua antica e risaputa fascinazione per la rete, l’artista individua nel suo funzionamento un meccanismo affine a quello della produzione umana del burnout: «Una volta che una pagina di internet viene visualizzata rimane in memoria e, se non si provvede a richiedere un aggiornamento, quando esso è effettivamente sopravvenuto, la pagina rimane così com’è per sempre. Anche noi, nel momento in cui perdiamo la capacità di aggiornare il nostro cervello, esso riproduce automaticamente degli schemi sempre uguali. In termini umani, così come in termini informatici, questo comportamento va ricondotto all’esigenza di perseguire una sorta di risparmio di energie. Non di meno i processi a cui assistiamo sono molto più complessi». Sorta di cristallizzarsi della percezione dell’immediato, di inte riorizzazione della teoria nietzschiana dell’ “eterno ritorno dell’identico”, il burnout costituisce dunque un ospite capace di penetrare un po’ in ogni luogo ed in ogni momento della vita. (:::) La sensazione di straniamento che Burnout suscita nello spettatore è perseguita da Zak tramite l’evocazione di uno scenario da delirio in cui l’irrazionale regna sovrano. Il susseguirsi interminabile tanto del limitato repertorio di percorsi e gesti che ciascuno dei cinque attori compie e ricompie, quanto del non più ricco repertorio di battute, che a tratti si accavallano le une alle altre ed a tratti risultano maggiormente scandite nel tempo, produce un effetto di terribile disarmonia, ulteriormente alimentata dalle movenze “scattose” dei personaggi, riconducibili alla volontà di simulare la bassa qualità della ripresa tipica di una telecamera a circuito chiuso, e dalla vibrante e conturbante colonna sonora composta nuovamente da Giuseppe Fontanella. (Taccone Stefano, ExZak, Phoebus, 2014, Casalnuovo di Napoli, pp. 56-58) |
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