
La radicalità della fede si manifesta nell'assenza di Dio. La pretesa di vedere Dio come lo si vorrebbe o dove lo si vorrebbe prelude la delusione e lo smarrimento.
"Gesù disse: "Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! " (Giovanni 20,26-29). Il vedere può stimolare la fiducia: "provare per credere" afferma uno slogan.
Le cose che si vedono sono visibili, quelle che non si vedono sono invisibili. In Giovanni 6,46 è scritto: "Perché nessuno ha visto il Padre, se non colui che è da Dio; egli ha visto il Padre". Siamo dunque figlie e figli di un padre invisibile che però lo si può trovare, direbbe Isaia.
Il Padre che mi ha mandato (è Gesù che parla), egli stesso ha reso testimonianza di me. La sua voce voi non l'avete mai udita; il suo volto non l'avete mai visto (Giovanni 5, 37).
Noi che siamo ad immagine e somiglianza di Dio fatichiamo però a sperimentare l'invisibilità. Potremmo in realtà dire che noi siamo segnati dall'invisibilità e che la percezione di essere invisibili ci affligge; ci distingue da ogni altra creatura. Siamo così invisibili da tentare il tutto per tutto per farci vedere, come un naufrago che si dimena nell'immensità dell'acqua, proviamo ad emettere segnali, a farci notare perché la "salvezza" talvolta è correlata alla nostra visibilità. Buona parte degli artisti contemporanei non fanno che sbracciare da una pozzanghera, non vogliono essere salvati , pretendono solo di essere notati.
Nanni Moretti nel film Ecce bombo chiede: "Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?..." poi si risponde: "Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce...".
La nostra visibilità può diventare, in effetti, una sceneggiatura, una strategia, un disperato tentativo di ottenere attenzione fingendo però di non essere interessati ad essa: provare a comportarsi alla maniera di Dio. Cioè far finta di essere libere e liberi dal bisogno di essere visibili, di essere notati, di essere considerati. Quello che costantemente fanno gli artisti e buona parte dei professionisti del Sistema dell'arte.
Viene definito "disturbo istrionico", in psicologia, quell'alterazione della personalità che si caratterizza in una estenuante ricerca di attenzione attraverso atteggiamenti teatrali e innumerevoli richieste di attenzione, di sostegno e approvazione. Se stiamo male qualcuna/o si accorgerà di noi. Se metto in scena il mio dolore qualcuna/o proverà compassione per me e così potrò finalmente essere vista/o. Ma se il bisogno di essere desiderati ci spinge ad affinare strategie di visibilità chi farà i conti con la nostra invisibilità?
L'artista da sempre si interroga sull'oblio dell'invisibilità. Si rifletta sul termine che ha scelto per presentare le sue opere: mostra. Mostra personale, mostra collettiva...
Mostrare il proprio lavoro, presentarlo, dare ad esso la giusta attenzione, la necessaria visibilità per manifestare un'inequivocabile visibilità. Anche gli artisti che hanno lavorato sull'invisibilità hanno necessariamente esposto dei "risultati", tradendo di fatto l'intenzione di base, la loro ricerca.
C'è però un ridotto numero di artisti, i più radicali, che affronta a muso duro e talvolta con lacrime, l'invisibilità e l'oblio che da essa scaturisce. Penso a quelle artiste, a quegli artisti che ad un certo punto della loro ricerca hanno ritenuto necessario interrompere il processo di produzione artistica, per un giorno, un mese, degli anni. Disgustate/i dal flusso di segni e dalla incessante esposizione di essi o semplicemente persuase/i dall'idea che l'artista, proprio come Dio, può fare a meno di certificare incessantemente la propria esistenza.
I farisei chiesero un segno a Gesù: "Dacci un segno e noi crederemo"... (Matteo 16,1-12) facci vedere qualcosa, facci vedere se veramente sei chi dici di essere. Gesù non darà loro alcun segno se non il segno del profeta Giona: la sua morte e la sua resurrezione.
Questi artisti che forse non ritroveremo nei libri, nei musei, che non potremo ridurre a feticcio, che saranno annoverati nel numero dei dimenticati, sono il più sublime e doloroso elogio all'invisibilità,. Sono pioniere/i di una pratica artistica che fa della vita la sua materia e delle relazioni i luoghi di promozione.
Queste donne e questi uomini sono l'espressione più somigliante di Dio, sono quel volto mai visto e quella voce mai udita. Sono la vita affrancata da ogni menzogna, la prova che l'esistenza non si misura secondo parametri di visibilità.