Salvatore Manzi
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L'invisibilità della non pratica artistica

1/29/2023

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FotoFrancesca Riccio, "Lacrime", 2005, installazione





La radicalità della fede si manifesta nell'assenza di Dio. La pretesa di vedere Dio come lo si vorrebbe o dove lo si vorrebbe prelude la delusione e lo smarrimento.
"Gesù disse: "Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! " (Giovanni 20,26-29).  Il vedere può stimolare la fiducia: "provare per credere" afferma uno slogan. 
Le cose che si vedono sono visibili, quelle che non si vedono sono invisibili. In Giovanni 6,46 è scritto: "Perché nessuno ha visto il Padre, se non colui che è da Dio; egli ha visto il Padre". Siamo dunque figlie e figli di un padre invisibile che però lo si può trovare, direbbe Isaia.
Il Padre che mi ha mandato (è Gesù che parla), egli stesso ha reso testimonianza di me. La sua voce voi non l'avete mai udita; il suo volto non l'avete mai visto (Giovanni 5, 37).
Noi che siamo ad immagine e somiglianza di Dio fatichiamo però a sperimentare l'invisibilità. Potremmo in realtà dire che noi siamo segnati dall'invisibilità e che la percezione di essere invisibili ci affligge; ci distingue da ogni altra creatura. Siamo così invisibili da tentare il tutto per tutto per farci vedere, come un naufrago che si dimena nell'immensità dell'acqua, proviamo ad emettere segnali, a farci notare perché la "salvezza" talvolta è correlata alla nostra visibilità. Buona parte degli artisti contemporanei non fanno che sbracciare da una pozzanghera, non vogliono essere salvati , pretendono solo di essere notati.
Nanni Moretti nel film Ecce bombo chiede: "Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?..." poi si risponde: "Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce...".
La nostra visibilità può diventare, in effetti, una sceneggiatura, una strategia, un disperato tentativo di ottenere attenzione fingendo però di non essere interessati ad essa: provare a comportarsi alla maniera di Dio. Cioè far finta di essere libere e liberi dal bisogno di essere visibili, di essere notati, di essere considerati. Quello che costantemente fanno gli artisti e buona parte dei professionisti del Sistema dell'arte.
Viene definito "disturbo istrionico", in psicologia, quell'alterazione della personalità che si caratterizza in una estenuante ricerca di attenzione attraverso atteggiamenti teatrali e innumerevoli richieste di attenzione, di sostegno e approvazione. Se stiamo male qualcuna/o si accorgerà di noi. Se metto in scena il mio dolore qualcuna/o proverà compassione per me e così potrò finalmente essere vista/o.  Ma se il bisogno di essere desiderati ci spinge ad affinare strategie di visibilità chi farà i conti con la nostra invisibilità?
L'artista da sempre si interroga sull'oblio dell'invisibilità. Si rifletta sul termine che ha scelto per presentare le sue opere: mostra. Mostra personale, mostra collettiva...
Mostrare il proprio lavoro, presentarlo, dare ad esso la giusta attenzione, la necessaria visibilità per manifestare un'inequivocabile visibilità. Anche gli artisti che hanno lavorato sull'invisibilità hanno necessariamente esposto dei "risultati", tradendo di fatto l'intenzione di base, la loro ricerca.
C'è però un ridotto numero di artisti, i più radicali, che affronta a muso duro e talvolta con lacrime, l'invisibilità e l'oblio che da essa scaturisce. Penso a quelle artiste, a quegli artisti che ad un certo punto della loro ricerca hanno ritenuto necessario interrompere il processo di produzione artistica, per un giorno, un mese, degli anni. Disgustate/i dal flusso di segni e dalla incessante esposizione di essi o semplicemente persuase/i dall'idea che l'artista, proprio come Dio, può fare a meno di certificare incessantemente la propria esistenza.
I farisei chiesero un segno a Gesù: "Dacci un segno e noi crederemo"... (Matteo 16,1-12) facci vedere qualcosa, facci vedere se veramente sei chi dici di essere. Gesù non darà loro alcun segno se non il segno del profeta Giona: la sua morte e la sua resurrezione.
Questi artisti che forse non ritroveremo nei libri, nei musei, che non potremo ridurre a feticcio, che saranno annoverati nel numero dei dimenticati, sono il più sublime e doloroso elogio all'invisibilità,. Sono pioniere/i di una pratica artistica che fa della vita la sua materia e delle relazioni i luoghi di promozione.
Queste donne e questi uomini sono l'espressione più somigliante di Dio, sono quel volto mai visto e quella voce mai udita. Sono la vita affrancata da ogni menzogna, la prova che l'esistenza non si misura secondo parametri di visibilità.

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PROFILI SOCIAL E MESSAGGI CRIPTATI NELLE CATACOMBE PALEOCRISTIANE La primitiva storia delle immagini cristiane

8/26/2016

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L'iconografia cristiana, come infondo accade per ogni esperienza umana, prende a prestito dal passato, forme e funzioni. Questo processo avviene per strutturare un bisogno, quello di "segnare" una crescente consapevolezza esistenziale che trascina la propria vita e quella di numerose comunità verso un'esistenza nell'esistenza, un dischiudersi di promesse.
L'iniziale clandestinità fa diventare templi, domus ecclesiae, comuni abitazioni, il luogo santissimo non è più protetto dai boschi di colonne come negli antichi templi greci o come in quelli più recenti romani, non ci sono cortine inattraversabili come per gli ebrei.
Dove due o più si riuniscono nel nome di Gesù, il loro Cristo è in mezzo a loro rendendo santo quel luogo, i loro stessi cuori.
Il tempio del cuore purificato dalla nuova nascita.
Eppure l'esperienza di conversione dei primi cristiani non può considerarsi omogenea, non è frutto di una campagna mediatica, è la somma di numerosi incipit spirituali, tutto frammentato, tutto a pezzi, come esploso e non tutte le parti combaciano, anzi possiamo dire con certezza che non combaciano affatto.
Sopravvivono diverse istanze talvolta inconciliabili.
Non solo le abitazioni ma anche i cimiteri sotterranei, scavati nel tufo per proteggersi dalla persecuzione, diventano luoghi di culto. Proprio in questi spazi, seppur sempre in forma cifrata, si avvia la rappresentazione primitiva dei cristiani.
Le necropoli del periodo paleocristiano sono conosciute come “catacombe”, probabilmente dal nome del cimitero che si trovava sulla via Appia, non lontano da Roma, di fronte al mausoleo e al circo che l’imperatore Massenzio aveva fatto erigere per suo figlio nella località chiamata Ad catacumbas.
Le immagini sono quelle della tradizione romana.
Il tema della resurrezione è in forte contrasto con le atroci condanne degli adepti della Nuova Via. Quei corpi straziati, quel sangue versato, quelle vesti stracciate, non possono morire (finire), vengono conservate in reliquie e il ricordo delle loro sembianze viene ritratto sulle pareti dei luoghi di sepoltura. Tutto ciò che resta dei martiri è considerato sacro, morti santi e quindi ancora "utili" per i bisogni di chi resta.
I cimiteri, luoghi del sonno, prendono il nome dal martire che vi è stato sepolto.
Risulta quindi difficile definire una netta separazione tra l'arte romana pagana e l'inizio dell'arte cristiana, la sostanziale novità risiede nel contenuto iconografico, la cui simbologia tende a diventare ripetitiva.
Il Cristo viene rappresentato per la prima volta usando il soggetto del Buon Pastore (kouros classico), II secolo d.C., ma anche recuperando il motivo del filosofo barbuto, del giovane Apollo, in queste primitive rappresentazioni appare ancora sprovvisto di aureola.
I martiri via via vengono considerati "santi", i soli santi, o meglio quelli da venerare.
Una santità scaturita da un sacrificio estremo e non condizione di ogni credente nato di nuovo in virtù della grazia in Cristo Gesù. Non sono i santi che l'apostolo Paolo ha a cuore ed ai quali scrive le sue lettere.
Bisogna pur dire che questi primi reperenti iconografici sono stati realizzati da soggetti sprovvisti di una particolare cultura artistica. La loro funzione era sostanzialmente privata, clandestina e quindi anche svincolata dal peso e l'ambizione del misurarsi con il grande pubblico.
Pur considerando "nuova" l'esperienza religiosa dei primi cristiani, si evidenzia la necessità del tutto pratica di risolvere questioni elementari, quali ad esempio l'organizzazione dei culti e quindi il ricorrere ad una serie di rituali che solo nel tempo andranno a caratterizzarsi in una organizzazione più originale, unitaria e teologicamente considerata coerente.
I credenti del II secolo articolano un loro casellario, gli ambulacri, cuniculi, loculi, arcosoli, cubicoli, cripte e tricore che si disseminano lungo i percorsi delle catacombe possono considerarsi dei profili social "visitati" di utenti deceduti, dai quali evincono identità e caratteristiche.
Il divieto di rappresentare il sacro non è una priorità per queste comunità perseguitate, le loro immagini umane, floreali, paesaggistiche, geometriche, sono dunque fortemente simboliche, non sostituiscono il soggetto, lo ricordano, servono a non farlo svanire, a consolare, formano una griglia di riferimento ad un mondo spirituale che al momento è invisibile, indimostrabile e che quindi ha bisogno di forme e colori.
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Salvatore Manzi
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Intervista di Salvatore Manzi a Rosaria Iazzetta in occasione della mostra personale: Rosaria Iazzetta, "Sandwich" a cura di Stefano Taccone, Galleria E23, Napoli.

1/4/2016

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SM
A motivo della trasgressione di Adamo, secondo il racconto della Genesi diventa maledetto il suolo della terra, «Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita». Viene svelata la materia con la quale l’uomo era stato creato «finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere tornerai!» (Genesi 3,17-18).
La morte, dalle nostre parti, è diventata un profondo atto di ingiustizia, la morte da tumori, camuffata nelle cose che mangi, nell’acqua che bevi, nell’aria che respiri. Questa nostra terra “maledetta” è conseguenza di una acquisita conoscenza del bene e del male? È consapevole rassegnazione al potere criminale? È disprezzo per una terra troppo dolorosa da lavorare?
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RI
Era limitato all’incidente, la  cosiddetta, morte democratica, ossia che non conosceva categorie sociali, poteva capitare a tutti. Oggi, anche la morte che deriva da un male incurabile, non rispetta questi criteri, perché a subire certe patologie e soprusi sono con più frequenza, persone che in determinati territori vivono, senza essere chiamati in causa, ma solo a cose fatte, con la propria vita, nei patti criminali stipulati tra politica e camorra. Si guardi la Terra dei fuochi. Più dell’assenza di aria, di cibo sano, o di un terreno ancora coltivabile, quello che manca da intere generazioni e in diversi ambiti sociali, è il sentimento di amore. È la mancanza di questo, che genera azioni sbagliate. Se si ama il proprio territorio, si è disposti a lavorare il terreno, pur non essendo certi di recuperare in prodotti della terra, la forza lavoro investita; così è stato per intere generazioni. Quando però, si opera solo per profitto, la terra e il pensiero di coltivarla scompare, in termini di tempo e di immediatezza si intendono vedere i benefici, in modo rapido, dimenticando dell’uso e della necessità che la terra richiedeva, dimenticando del valore civile di dover lasciare quella terra ad altri dopo di loro, e quegli altri ad altri ancora dopo di loro. Più che rassegnazione al potere criminale, credo che in un’anomia totale, è difficile mettere in scena, quello che sosteneva Gregorio Magno, “Il manifestarsi delle opere, come prova dell’amore” (Homiliar in evangelia II,30,1.), perché la mancata tutela dei diritti civili, da parte di chi dovrebbe garantirci la salute, ossia lo Stato, diventa meno credibile del sistema mafioso.   
 
SM
Non siamo più “uomini” ma organi da controllare, curare, bombardare. È la battaglia dei metalli sulla polvere?
Sotto l’impulso di ingoiare, di fagocitare in preda all’egoismo, preferiamo acquistare morte sugli scaffali, mangiamo per morire. La stessa idea di fast food fa pensare ad un tempo, quello di alimentarsi, che rende l’uomo un oggetto, un veicolo, il cibo è solo carburante.
Anche il sandwich è un pasto veloce, il tuo progetto ci dice che la nostra terra è stata farcita come si fa con il pane tostato, di cosa e perché?
 
RI                                                                                                                                   
“La genesi di quello che siamo comincia dalla coscienza che  osiamo chiamare divina, in quanto  impensabile, onnipotente, mistero insondabile. Poi viene la sua trasformazione in energia, e alla fine, in organi materiali”. (Aljeandro Jodorowsky, Metagenealogia, pag.24 ) In primis, quindi la coscienza, poi gli organi e infine aggiungerei i metalli, o/e sostanze nocive, come dinamiche di controllo di morte e vita. Le dinamiche del profitto, ovviamente hanno degenerato la qualità a scapito della quantità, e mentre le multinazionali in ambito culinario investono in prodotti sintetici, per mettere sul mercato cibi usa e getta o di rapido consumo, altre hanno invece evaso le tasse, seppellendo in molti terreni della Campania e non solo, scarti industriali  e sostanze tossiche nocive. Sembrano diversamente indirizzate le capacità di abuso, eppure sono interconnesse dalla stessa modalità di attaccare la salute degli individui, una in modalità legale e l’altra in modalità illegale. Sandwich, è la modalità con cui Schiavone, pentito di camorra, coo-responsabile dell’interramento di rifiuti tossici e nocivi da Latina a molti territori della Campania, chiamava il sistema a stratificazione di seppellimento. In tempi e con significati diversi, Lipton lo scienziato americano, utilizzava nelle sue ricerche un sandwich per mostrare come la membrana cellulare, ha bisogno di essere attraversata per generare vita. Mentre Schiavone, utilizzava la stratificazione, di un rifiuto generico in basso, di quello tossico al centro e di un altro generico sopra, e quindi così detti processi di morte, con l’inquinamento con le falde acquifere sotto, e l’avvelenamento di frutti e piante sopra, Lipton con olive e burro, lavorava sulla dimostrazione della vita. Due esempi in antitesi, ma validi nella dimostrazione di un’azione dettata dal male e l’altra dettata dall’amore per dimostrare la vita.
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SM
Scavarsi una fossa, significa procurarsi del male con le proprie mani, questo  è accaduto nel nostro sud. Davanti agli occhi di tutti sono state compiute gravissime azioni criminali contro l’ambiente. Il lavoro che tu esporrai alla galleria E23 di Napoli non è solo un atto di denuncia ma anche un messianico invito a fare nuove tutte le cose. In che modo il tuo lavoro trasforma il male in bene?
 
“La fabbrica emanava un’esalazione pestilenziale che impregnava tutto il villaggio. Gli abitanti, stufi di sopportare quel fetore invasero la statale inalberando dei cartelli di protesta. Le autorità si videro obbligate ad ascoltarli, ma trasportare quella fabbrica o chiuderla addirittura, come lor esigevano, avrebbe causata una perdita enorme per il Governo. Il ministro dell’Economia, trovò la soluzione perfetta: con una semplice operazione al naso ad ogni contadino, eliminò loro il senso dell’olfatto”. Bene questo è un racconto paradossale, di Aljeandro Jodorowsky (Il tesoro dell’ombra, pag.48), che meglio spiega come le politiche affrontano le dinamiche ambientali, e come la negligenza istituzionale continuano a pretendere dai cittadini, negando l’evidenza, lasciando a piede libero, chi ha le vere colpe. Per la trasformazione è quindi, necessaria la consapevolezza. Con la comprensione, arriva l’opportunità di scegliere. Così più aumenta la conoscenza, più aumenta la libertà di scelta. Ecco. Il mio lavoro si prefigge di portare a conoscenza, una volta per tutte un dato negato e ignorato, dai troppi. Per farlo utilizzo il mezzo scultoreo, perché come sosteneva il teorico Jacques Ravatin, le forme tridimensionali trasmettono delle onde, e di per sé aprono a nuovi canali di consapevolezza, quando a queste frequenze si aggiungono ora il contenuto statistico, ora quello scientifico e ora quello della memoria,  la  potenza espressiva diventa necessariamente un atto trasformativo, se non immediato, attuabile prima o poi nella coscienza dello spettatore. Quando questo non bastasse, ecco che l’apporto multimediale del video, nella ripresentazione di tutte le promesse mancate espresse dalla politica, o dai dati, sempre e comunque negati, diventano una fruibile e indimenticabile versione,  da tenere a mente in cuore, ogni qual volta, che si accetta passivamente l’idea, del male sul bene, come unica possibile modalità di sopravvivenza.
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Intervista di Raffaella Barbato a Salvatore Manzi in occasione della personale "Untitled 1945". Di.st.urb., 21 aprile 2013.

9/26/2015

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Salvatore Manzi, "Untitled 1945", DISTURB, Scafati, 2013
RB
Nel 2001 in alcuni spazi espositivi italiani (RADIO GOLD di Vercelli, OFFICINA di Lucca, T293 di Napoli) furono esposte, creando non pochi dissapori, 1200 copie falsificate della rivista Flash art a firma di Zak Manzi. Il 2002 ti vede protagonista di una nuova provocazione al mondo dell'arte con la diffusione di un comunicato stampa, che annunciava una falsa mostra negli spazi del gallerista Emi Fontana; e ancora sempre nel 2002, più di trecento manifesti pubblicizzavamo una nuova, falsa mostra, negli spazi del Centro Sociale Officina 99. La necessità di creare un cortocircuito tra te e il sistema dell'arte è sempre stato uno degli elementi che ha contraddistinto la tua ricerca artistica ed il tuo personale rapporto con il mondo dell'arte. Nel passaggio dalle "dichiarazioni" d'illusorietà dell'arte del primo periodo, alle successive denunce ironiche, critiche e puntuali delle questioni socio-politiche e ambientali, la trasformazione linguistica del tuo lavoro è da considerarsi sinonimo di rifiuto/rottura degli stereotipi nel quale di volta in volta il "sistema" provava ad etichettarti. Parlaci di questi passaggi e della continuità e rotture che legano Zak Manzi a Salvatore Manzi, dall'artista sovversivo al video-maker impegnato, fino all'ultimo "disorientamento" regalatoci, con il "Salvatore pittore".

SM
I miei esordi da artista sono sicuramente densi di profonda avversione verso il sistema dell'arte e le sue regole. Senza alcun dubbio, la mia formazione accademica ha contribuito nel creare in me posizioni antagoniste al sistema dell'arte e sentimenti di repulsione verso le forme tradizionali dell'arte. In quegli anni, riflettevo spesso sulle considerazioni di Piero Manzoni circa il "potere" della firma d'artista (ero affascinato da quella serie di happening in cui l'artista apponeva la sua firma sul corpo di uomini e di donne); in particolare ero attratto dalla possibilità di scindere, la produzione artistica dall'autore. La ricerca sull'assenza dell'autore nell'opera d'arte contemporanea, mi spinse a praticare forme di esclusioni creative. In uno scritto del 1999, affermavo in merito: "Decidere di non essere autore dei proprio lavoro, e accettare di essere autore di un lavoro non proprio, sono i punti fondamentali dei mio progetto". I Flash art apocrifi, a cui fai riferimento nella domanda, sono la realizzazione, l'esplicazione concreta di questo aspetto della mia ricerca, che si incrociava in quegli anni con quella dell'artista Angelo Rossi. L'amico casertano, decise di rinunciare alla sua firma e concedere a me tutte le sue idee, le sue produzioni, dichiarando: "Rinuncio a firmare le mie opere per consentire a Zak Manzi di fare arte senza far nulla, per consentirgli di non pensare da artista ma produrre, esporre e vendere ugualmente. Liberarsi dal dovere-piacere di essere autore". In realtà, quella che agli occhi di tanti poteva sembrare una buffonata, sia per Angelo che per me, diventava col trascorrere del tempo, una condizione dolorosa, pericolosa, "disumana". In quegli anni la rete approda nel sistema dell'arte, si diffonderanno le caselle -ed indirizzari- di posta elettronica delle gallerie e le prime riviste specializzate on-line. Devo riconoscere, che con estrema semplicità, riuscivo a "sabotare certi servizi", manomettere strumenti e produrre informazioni fasulle! La realizzazione di false mostre, era un'azione in linea con la mia idea di azzeramento creativo, cioè la creazione di un evento senza realizzazione reale, un processo che convalidava la mia tesi di una superiorità dell'informazione a discapito del dato reale e del processo creativo.
La seconda fase Zak Manzi mi vede impegnato, invece, in una riappropriazione del diritto di produzione; in rottura netta con la formazione ed il percorso iniziale. Disegnavo, dipingevo e realizzavo video. Un passaggio questo, che susciterà non poco interesse, anche in un giovanissimo Stefano Taccone, che a partire dal 2005, inizierà a seguire il mio lavoro e le varie rotture/evoluzioni che lo contraddistingueranno. Dal 2003 il video inizia a diventare il mio linguaggio preferito, potevo con esso realizzare dei prodotti in poco spazio, senza possedere uno studio e soldi da investire. Ero in grado di raggiungere chiunque con estrema velocità, anche attraverso la rete. I lavori video di questi anni sono caratterizzati dalla presenza di frequenti riferimenti socio-politici. La mia attività di operatore sociale in ambito psichiatrico, intrapresa negli anni del servizio civile, inizia ad "entrare" in molti dei miei progetti video (Therapy, Burnout, Il medico dei pazzi, Ho scritto una poesia). Altri lavori invece affrontano i temi della pace e del disarmo. Non mancarono alcune considerazioni sulla condizione odiosa del vivere in regime berlusconiano. Di certo, la mia recente predilezione per la pittura, avrà provocato smarrimento in molti amici e addetti ai lavori, ma la mia vita, come la vita di ognuno di noi, è in trasformazione. Non ho paura di cambiare, di considerarmi altro, di assecondare ciò che in questo momento ritengo prezioso. La novità è ciò che scopro di nuovo in me stesso.

RB
Il lavoro video Area limitata del 2011, in cui l'accentuazione del carattere pittorico è data dalla saturazione dei colori; ancora il lavoro video Partita datato sempre al 2011, in cui le figure perdono definizione e consistenza tridimensionale, possono essere considerati in qualche modo un preludio/anticipazione di una ricerca che si dirigerà sempre più verso la pittura? E in questa evoluzione che guarda al passato che incidenza simbolica ha un lavoro video dal titolo Genesi?

SM
Ho sempre considerato i miei video "dipinti in movimento", ho sempre considerato il video una superficie pittorica. Oltre i lavori nominati, c'è da considerare il video Barricate del 2011, che anticipa la mia attuale predilezione per l'astrazione. Genesi ha a che fare con la mia conversione alla fede evangelica avvenuta nel 2006 ed il relativo interrogarmi sull'amore di Dio e le scritture sacre.

RB
Untitled 1945 è il titolo dell'intervento pittorico site specific realizzato nello spazio Di.st.urb. Tutti tuoi lavori pittorici sono contraddistinti da due cifre, quella segnica -di cui parleremo dopo- e quella numerica. Che funzione ha l'uso di un non titolo nelle tue opere e in questo specifico lavoro, qual è il significato delle cifre/data 1945? E ancora, Salvatore, che valore hanno i criteri di numerazione che ritmano le cadenze sulle quali si organizza la ripetizione e la distribuzione dei tuoi tratti pittorici?

SM
Scegliere un non titolo preserva il dipinto da eventuali approcci idolatrici. Un dipinto è un dipinto, non contiene alcuna sacralità, non ha una identità in quanto oggetto ma un processo di catalogazione in quanto manifestazione della compilazione. Sono partito dalla
cifra 1975 che è l'anno della mia nascita, per poi procedere in un conto alla rovescia. Untitled 1945 è l'anno di nascita di mia madre, a lei dedico questo untitled. Il 1945 è anche l'anno in cui le tenebre hanno parzialmente coperto la luce di questo pianeta con i segni della guerra. Le dimensioni e la forma dello spazio mi consentono di stabilire dei criteri di riempimento o cancellazione. I segni che realizzo sono archetipi della scrittura, sono tavole matematiche che tento di decifrare, presenti in ognuno di noi.

RB
Chi ha avuto modo di soffermarsi e riflettere sui tuoi ultimi lavori e su questo "proseguimento" della tua ricerca, sa che parte della tua attenzione oggi è rivolta alla questione dell'immagine, al ruolo/funzione dell'icona e della figura anche in rapporto ai tuoi studi filosofici e teologici. Protagonista assoluto delle tue opere è il segno, che come accade per l'alfabeto ebraico in sé contiene il carattere e la cifra, è forma e numero. Il segno diviene metafora di un altro sapere; ogni segno è una sorta di pausa tra il mondo esterno e quello interno all'artista, un silenzio meditativo che ci "parla", a mio avviso, delle necessità primarie dell'uomo. Un guardare alla genesi, al punto zero, una ricerca etica della prima radice e delle dinamiche relazionali - collettive ed individuali- che sorreggono e giustificano l'agire dell'uomo. Parlaci dell'arcaicità del tuo lavoro e della funzione del segno/scrittura che ad una riflessione più attenta è cancellazione, quindi manifestazione/negazione.

SM
L'arcaicità presente nei miei dipinti è la sintesi di un percorso tra astrazione e spiritualità che rinvia al tema della irrappresentabilità della divinità. La ricerca del segno minimo, del significato simbolico dei colori utilizzati, tenta di offrire una occasione contemplativa ecumenica e interculturale. Per la costruzione dei dipinti non parto da bozzetti iniziali, né tanto meno utilizzo riferimenti o schemi precostituiti (spolvero, proiezione), ma cerco di instaurare un rapporto fisico con lo spazio, tentando di percepire direzioni e ritmi. Il rifiuto della rappresentazione si automatizza in un atteggiamento motorio che risulta inefficace per la comprensione del motivo riprodotto, a danno della capacità cognitiva e degli aspetti linguistici della scrittura e del suo potenziale matematico. Il campo pittorico si riempie in cerca di una soluzione, fatta di connessioni, sovrapposizioni, accostamenti e intersezioni.

RB
Merleau-Ponty, filosofo francese, nel saggio Il visibile e l'invisibile, superando la dicotomia tra soggetto e oggetto, ci parla una condizione dell'essere che è condivisa tra l'uomo e il mondo. "L'uomo e il mondo sono fatti della stessa carne, segnano una continuità, dove il soggetto è contemporaneamente oggetto, senziente e sentito, toccante e toccato". Secondo il filosofo, l'uomo organizza la sua esistenza attraverso un rapporto di reciprocità col mondo, ogni oggetto, ogni cosa appartenente alla realtà (ogni evento implica una dimensione di visibilità), ma contemporaneamente contiene anche una dimensione spirituale e invisibile. Il rapporto tra queste due dimensioni: visibile e invisibile (fatta di relazioni, forze energetiche, movimenti intensivi) è necessaria, complementare e dialettica. Pensi, in riferimento alla riflessione di Merleau-Ponty, che anche nell'arte vi sia la dualità visibile ed invisibile? E, in relazione al rapporto di reciprocità dell'uomo/artista con il mondo, qual'è la funzione della tua ricerca? Quali le tue emergenze dell'arte? Cosa pensi dell'attuale "sistema dell'arte", della funzione e del ruolo degli "spazi deputati" e degli "spazi indipendenti"?

SM
Noi siamo il visibile e l'invisibile. Non intendo vivere di emergenze, non mi pongo più il problema del sistema dell'arte, né tanto meno del ruolo sociale dell'opera d'arte come prigione ideologica, ma con gioia, rifletto e considero, le meraviglie che ci dona l'Eterno.

RB

Quale legame/rapporto unisce Untitled 1945 e Di.st.urb (Distretto di studi e relazioni urbane/in tempo di crisi)? Cos'è la crisi per il Salvatore Manzi?

SM
Approfitto di questa domanda per ringraziare la tua persona, gli amici Ciro Vitale, Mario Paolucci, Pier Paolo Patti -ed il resto del gruppo Di.st.urb- che mi hanno supportato in questo progetto. Ho trovato in Di.st.urb. l'amore di chi si impegna in una coraggiosa impresa culturale. Spero di aver corrisposto con il medesimo sentimento.
La crisi è l'occasione per essere se stessi.
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Bianco-Valente intervistano Salvatore Manzi

9/12/2015

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Salvatore Manzi, "Untitled1975", 2013, still da video.
BV
Che rapporto hai con le opere che realizzavi come Zak Manzi, quali sensazioni provi quando le rivedi o ti tornano in mente?

SM

Non ho un buon legame con le mie opere, nel passato ho letteralmente gettato i miei lavori, la stessa documentazione cartacea di pubblicazioni, recensioni o appunti.
Spesso ho ripensamenti drastici, difficilmente una mia produzione esce illesa dal mio giudizio, sono perennemente insoddisfatto di tutto ciò che produco, devo dire che lo sono anche per ciò che non produco. Trovo sollievo solo nel processo, nella costruzione, o meglio nel riempimento. Una volta esaurita l'azione creativa, provo un profondo disinteresse per ciò che mi è dinanzi, in alcuni casi un reale fastidio.
Mi è capitato di lavorare per più di due mesi ad un quadro, "completarlo" e poi ricoprirlo per un crescente sentimento di insofferenza, ogni opera, forse, una volta prodotta, andrebbe cancellata.
Nessun'opera, forse, dovrebbe durare più di un'esigenza.
"Zak Manzi" ha agito in modalità variegate, è stato un mio pseudonimo, ma allo stesso tempo anche una sigla dietro la quale hanno agito componenti espressive molto distanti da me, provo più piacevolezza nel ricordare quegli interventi nei quali di mio c'era solo la firma.
Avverto un senso di estraneità verso quel periodo, le opere "sopravvissute", da qualche anno, ho iniziato a difenderle a testimonianza di una lotta, per quel mio primordiale desiderio di rinuncia creativa e di riduzione di senso.
Riesco a trovare una linea di congiunzione con quel periodo e quello attuale, se sposto l'attenzione dal prodotto e mi soffermo su questa sorta di escalation di intenti, che rimandano al dilemma indagato durante la Biennale di Venezia del 1972: opera o comportamento.

BV
Oltre ad essere un artista insegni all'Accademia di Belle Arti, cosa pensi sia importante trasmettere ai giovani artisti che si stanno formando in questi anni?

SM

Molti dei giovani che ho conosciuto in questi anni si avvicinano all'arte con presupposti molti differenti del mio passato. Sostanzialmente la loro posizione non si basa su una contrapposizione ad un sistema, o su una graduale ricerca di attenzione, di consenso. La crescita di sistemi alternativi a quelli tradizionali attira i giovani verso un bacino culturale più connesso e relazionale. I festival o rassegne di arte elettronica, il piacere di mettersi insieme nel costruire organismi creativi, la passione verso produzioni interattive ed elettronicamente processuali, disegnano una nuova committenza che non è più quella sacrale del collezionismo e del mercato dell'arte, ma più necessaria e comunitaria, più aziendale.
Cresce l'idea di  artisti/imprenditori utili a soddisfare e dare risposte alla noia e alla cristallizzazione naturale di ogni processo commerciale, politico, industriale.
Artisti non più di corte o di stand fieristici, ma funzionali ai bisogni delle istituzioni, delle società, dei governi metropolitani.
Le stesse Accademie di Belle Arti diversificando le aree di studi in bacini più "concreti", lasciano immaginare la prospettiva formativa intrapresa.
La crisi economica, sempre più estesa, se da un lato convince le istituzioni a intraprendere percorsi non aleatori fa crescere tra i giovani, almeno credo, un diffuso desiderio di libertà.
Ai giovani con i quali entro in contatto cerco di infondere la passione per la poesia, per lo studio, per le personali curiosità. Ritengo sia importante promuovere in loro uno spirito critico, rispetto al percorso che fanno, alle mode che anche inconsapevolmente seguono. Di essere critici anche verso i propri maestri, verso la semplificazione di ogni processo. Di non aver paura della solitudine, di essere in contraddizione, di non rinnegare il loro desiderio di esprimersi, di non essere dogmatici, di non sacrificarsi in virtù di nessun modello didattico o organizzativo, di non soffocare le personali intuizioni. 
Gli studenti, presi dagli esami e dalle cose da fare, dimenticano presto le motivazioni più profonde che li hanno spinti a scegliere quel percorso. L'Accademia può intristire i giovani se diventa un posto di lavoro, se non c'è spazio per cose inutili, se ogni intento deve essere finalizzato al successo mediatico o alla costruzione e confezionamento di qualcosa di comprensibile, se serve ad accaparrarsi consensi dal direttore, se diventa l'arena delle proprie frustrazioni, se esclude o diventa manovalanza intellettuale. 

BV
Hai in mente un fine preciso del tuo fare arte oppure si tratta di una necessità indipendente, una sorta di "riflesso incondizionato" al semplice fatto di vivere?

SM

L'arte è sempre stato per me il rifugio di ogni mia tristezza, la voce che non usciva, le mazzate che non volevo dare. Attraverso l'arte ho trovato coraggio, è una disciplina incline al mutamento. L'arte è un viatico alla comprensione.
Il mio fare arte ha sempre avuto un fine di esplicita pacificazione, di me nello spazio. Un tentativo di dissoluzione della mia sostanza nelle altre. 
Questa vita, con la sua complessità, restituisce molteplici chiavi di lettura. Sono riuscito a vivere sempre con un corpo oblungo, con la testa nel Cielo, nell'indefinito.
L'arte mi ha rivelato anche molte realtà spirituali.
Nel Cristo che scrive tra la polvere ho ritrovato il Figlio dell'Uomo che nella sua incomprensibile "scrittura" libera e salva. Segni performativi, impressi sulla natura iniziale e finale dell’uomo.
Perché sei polvere e polvere ritornerai.
Il Maestro smuove la stessa materia degli uomini, scrive con la polverizzazione di innumerevoli corpi, la corruttibilità delle nostre membra, ereditata dall’antica maledizione divina che ci accomunò nella polvere allo strisciare dei serpenti.
Segni non fissati, che compongono una composizione ancor più fragile delle tavole fatte a pezzi, dalla rabbia di Mosè. Il profeta distrugge un manufatto dell’Io sarò (JHVH).
La materia è creazione sotto gravità.
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Israel Rabinovitz intervista Salvatore Manzi

9/9/2015

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Salvatore Manzi, "Accumulatore", 2015, acrilico su pietra vulcanica.
IR
Che messaggio passa nelle tue opere? Socio-politico, religioso o per te è una forma di meditazione?

SM
Inizio a rispondere al tuo quesito prendendo a prestito alcuni versi dal libro dell'Ecclesiaste: "Per tutto c'è il suo tempo, c'è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare ciò che è piantato, un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare, un tempo per gettar via pietre e un tempo per raccoglierle, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci; un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via, un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare; un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace." (Ecclesiaste 3,1-8).
Come se in ogni vita si esprimesse quel tempo escatologico della fine, dello scadere di ogni cosa, dell'esaurirsi del male. Nel corso di questi anni ho avvertito l'esigenza di avvicinarmi a diverse questioni: l'attrazione mista a repulsione per il sistema dell'arte, mi ha spinto a produrre opere di contestazione, la condizione politica italiana mi ha suscitato indignazione, la mia recente conversione alla fede evangelica ha indubbiamente condizionato la mia più recente ricerca. Ritengo che la mia sia realmente una pratica di meditazione, un costante esercizio al rispetto verso ogni superficie e pulviscolo.
Talvolta dentro di noi si posa la polvere, traspare dallo sguardo, quando la sua intensità si infittisce come nei dipinti sperimentali di Leonardo, il fondo diventa indefinito, i contorni, non sono più netti, tutto è un amalgama di tristezza. Il soggiorno dei morti è talvolta il luogo dell’infelicità, la cattedrale della polvere immobile.
L’infelice va di luogo in luogo, non ha smesso di vivere per un torto subito, ma per una sorta di continuità emotiva che non intende spezzare. La tristezza non andrebbe mai regalata, non si educa all’infelicità, non si può sperare che un virgulto perisca, che non dia il suo frutto, che la vita non si compia nella sua pienezza. Ma l’infelice è un avido egoista, chiede per il suo malessere il massimo rispetto, tutto il tempo, tutte le vite, divora tutta la gioia nel suo malato e silente unico comandamento.
Prendi la polvere che è dentro di me e smuovila, soffia con il tuo Spirito ed io vivrò.
Chi rigetta la gioia rimane pulviscolo. Come la polvere della città, quella che rimane addosso, ai piedi, scossa in segno di condanna per quanti non hanno voluto accogliere il messaggio della salvezza, l’imminenza del regno di Dio. 
Resta in attesa una profezia, una parola certa ricevuta.
La mistica dei pigmenti.

IR
Sei stato influenzato da altri settori dell arte quali la poesia, narrativa, teatro, cinema?

SM
Succedono tante cose e tanti sono i giorni trascorsi, ma poi escono fuori i pensieri, come pesci di sera che saltano a riva. Mi esprimo in un certo modo, anche per le poesie lette, i racconti immaginati, il teatro della vita e i films che mi hanno rapito. Dipende da chi ci governa, se è estate o inverno, se studio di più, se ho mal di gola.
L’arte per me è simile a quando da solo in auto urlo o sto zitto zitto pregando Dio.
La mia opera d’arte più frequente è sorridere alla vita, fare qualche faccenda in casa, credere che esiste il Paradiso, andare avanti e indietro e “gettare il pane sulle acque”.
Sono uscito da tutto e da quel tutto mi tengo lontano, per via di quello che avrei potuto fare, per tutte le cose che accadono se scegli o se non scegli. Produco così, e non conto il mio raccolto, non lo conservo nei granai. Continuo, perché non mi aspetto qualcosa, è il posto delle fragole, perché non voglio andare più forte per superare qualcuno.
Se poi corro è solo per sentire il vento sulla faccia. 

IR
Con quali artisti hai avuto un contatto diretto o indiretto nelle tue opere?

SM

Ci sono artisti che in modo diretto hanno profondamente impressionato (quasi in termini fotografici) la mia sensibilità, penso al caro amico Angelo Rossi, per la sua capacità di leggere in modo del tutto straordinario il vivere contemporaneo. Poi ci sono gli artisti inconsapevoli, numerosi e tra i più illuminanti che ho incontrato nel mio impegno sociale. Artisti del dolore agli occhi di tanti, ma che ho sempre invece considerato, della libertà ed allegrezza. Poi c'è l'artista della mia vita, mia moglie, che nella sua quotidiana pratica di riduzione di senso e di segni, ha favorito un mio nuovo dizionario semantico e rafforzato il mio percorso passato, il nostro è un confronto costante. 
Sono numerosi gli artisti che indirettamente influenzano la mia produzione, cito solo alcuni: Roman Opalka, Bas Jan Ader, Frank Stella, Alighiero Boetti, Robert Ryman. Li accomuna una coerenza teorica, l'idea di opera che si distacca dall'estro individuale e che si interroga su un sistema oggettivo, "interno", che esaurisce tutte le possibilità nella sua stessa formulazione e soluzione estetica. 
Da queste prerogative si innesta una ricerca sul "religioso", non tanto nei confronti dell'opera, quanto di una lettura segnica non sempre visibile e circoscritta all'apparenza.
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Geppy Pisanelli intervista Salvatore Manzi

9/2/2015

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Salvatore Manzi, Thunk, 2015
GP
Partendo dal titolo della tua mostra nello spazio EVENTITRE che è: PRIMA DI ME e andando a ritroso nel tempo, fino al Rinascimento e quindi all’origine della nostra identità culturale, vorrei sapere quali sono le influenze che questa enorme eredità ha avuto su di te come artista, come ti relazioni ad esse e come cerchi di superarle.

SM
Prima di me c'è la stratificazione di esperienze che mi hanno preceduto, c'è la storia dei segni dell'uomo. Tracce, apparentemente insignificanti, che hanno modificato, seppur marginalmente, la superficie delle cose. Nella perenne invenzione del futuro, l'uomo scrive. Segni di particolare interesse sono quelli che sottendono all'apparenza delle nostre considerazioni. Mostriamo la facciata della novità appoggiandola a strutture che stanno dietro, che puntellano, che non si vedono, che non fanno l'opera, incrinature nascoste perché ritenute superate, solo 'sostengono'.
Qualcuno ritiene che siamo la somma di tutto ciò che si è presentato a noi in forma di esperienza. Influenze che condizionano l'esistenza dell'uomo. L'artista ha suggerito l'ipotesi dell'originalità, fragile convincimento che molto spesso è stato smentito da quella schiacciante incapacità umana di creare dal nulla. Eppure è sempre urgente la necessità di plasmare una materia inesistente, se non altro illudersi di farlo. Possiamo solo modificare, dare quella vaga impressione di nuovo. La materia celebrale, nella manifestazione del pensiero è tra le più impalpabili dato che nel continuo registra, immagina, forma. Siamo eredi di ciò che costantemente suscita e suggestiona i nostri desideri.
C'è poi la storia degli uomini con il loro dio, la storia della divinità dell'uomo, del crescente interrogativo di un agire più ampio di quello accordato in un tempo. La verità di non capire fino in fondo, non solo ciò che accade, ma anche ciò che non si manifesta. 
L'artista ha sempre avuto un ruolo decisivo nella vita religiosa e politica, è stato sciamano, guerriero, mistico, intermediario, promulgatore, cortigiano. Ha disegnato in grotte e progettato intere città, ha inventato idoli e con le sue mani fatto dei.
Durante il Rinascimento l'artista è stato a servizio di un potere ecclesiale che ha messo a punto una strategia di comunicazione straordinaria. Ad egli è stato affidato il compito di far 'vedere' un paradiso artificiale fatto di sfarzo e potente immaginazione. Si inscena una nuova visione teologica, nella quale l'uomo ha piena centralità. Attraverso l'arte, le storie della Bibbia e quelle dei santi diventano opulenta propaganda di una fede popolare, azione rivolta ad una massa considerata rozza e malleabile ad ogni forma di manipolazione.
La produzione artistica esclude la Verità, in modo drammatico e devastante.
Il vento della Riforma minaccia la centralità del potere ecclesiale di Roma, attacca l'insana dottrina delle indulgenze affermando, con crescente consapevolezza, l'estraneità di quell'organizzazione al Vangelo predicato da Gesù Cristo.
Da Roma parte un'offensiva, gli artisti, ai quali pian piano viene riconosciuto l'imprimatur di intellettuali, firmano la loro produzione lasciando alle spalle la precedente identità di artigiani. 
Il divieto biblico di irrapresentabilità viene inabissato e le immagini, via via ritenute 'sacre', determinano quella che tu consideri come nostra identità culturale. A mio avviso, escludendo la funzione di alfabetizzazione ai testi sacri (sempre manipolata da quelle che erano le esigenze del papato), il proliferare di queste immagini ha desantificato il pensiero dell'uomo. Si è avviata una pornografica promozione della menzogna. Ha ridotto quella tipologia di cristiano a schiavo del visibile, adoratore di un pantheon sempre più affollato di neo divinità.
Bisognerà arrivare alla riproducibilità tecnica dell'opera artistica per avviare un processo di liberazione dellospirituale nell'arte.
Non è dunque mia preoccupazione quella di superare eventuali influenze, piuttosto auspico una abolizione della responsabilità dell'artista demiurgo, quale vivificatore della materia.

GP
Durante il tuo percorso di artista hai utilizzato diversi media: disegno, pittura fotografia, istallazioni, azioni, animazioni e video. Mi dici cosa ti spinge a cambiare continuamente medium? Quale è il minimo comune denominatore tra questi medium? Ed infine, se esiste un medium principe tra questi.

SM
Ritengo che ad accomunare tutti questi medium sia il desiderio di manifestare quei numerosi interrogativi che si articolano nel processo immaginativo. Penso ciò che posso fare e quello che faccio non si allontana molto dal pensiero iniziale. Di tutti i medium rifiuto l'elemento preparatorio, quella fase progettuale che di fatto rende artificiale la purezza di ogni intenzione creativa.
Ho cambiato e continuo a cambiare medium perché cambiano le mie considerazioni sull'uomo e lo spazio in cui vive, è evidente che le nuove tecnologie rappresentano oggi un rischio per gli artisti, la  manipolazione di essi li porta a produrre opere che invecchiano in fretta, vincolate da un impulso energetico esterno e semanticamente troppo radicate ad un processo produttivo industriale.
Il disegno, inteso come costruzione di una idea è alla base di tutto, anche della stessa scrittura.
L'idea è tale se nel pensarla sei in grado di segnarla.

GP
Quanto è importante il vissuto personale e quello collettivo nella nascita dell’opera d’arte?

SM
Non credo nella nascita delle cose, ma alla scoperta di esse, si scopre sia da soli che insieme ad altri.
L'opera d'arte non nasce dall'artista, egli si accorge di essa, prova a dirlo agli altri, a documentare quella incredibile e palese evidenza. Il vissuto collettivo è materia preziosa per l'artista, indistinta sostanza che necessita dimora.
L'uomo abiterà nel luogo promesso che al tempo opportuno sarà svelato.
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Michelangelo Consani intervista Salvatore Manzi 

8/25/2015

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Salvatore Manzi, Foglia e foglia dipinta ad acrilico verde, 2015
MC
Sono passati molti anni da quando ci siamo conosciuti, come ti senti oggi rispetto alla fine degli anni ‘90.

SM
Il periodo in cui ci siamo conosciuti è legato ad una mia fase di profonda insofferenza, sentimenti di grande inquietutidine mi spingevano a vivere con crescente aggressività la mia vita artistica e quotidiana.
L'intenzione di affermare un modello di ricerca, di contestare alcune modalità inique del sistema dell'arte, caratterizzavano la produzione artistica di quegli anni.
Entrambi, consideravamo necessario gravitare a debita distanza da quel "villaggio" dell'arte che molte volte ci guardava con interesse, curiosità, fastidio.
Ho continuato, in tutti questi anni, a lavorare con serietà e rigore, non ho considerato come significativa la disattenzione che talvolta ho assaporato, non ho avuto paura della solitudine, del giudizio degli altri, del disamore, dell'incomprensione. Ancora mi chiedo: cos'altro mi manca e cosa è già pronto davanti a me.
Oggi mi sento più sereno, sto imparando a tenere insieme i vari pezzi della mia vita.
Vivo in una perenne conversione, in un costante rinnegare e ritrovare me stesso.

MC
Operare a Napoli e essere di Napoli ha influenzato la tua ricerca?

SM
Penso di si, questa città non riesce a staccarsi da dosso è come pelle sulla carne. Ha sicuramente condizionato i miei atteggiamenti, le mie relazioni, le mie scelte. 
Napoli ha il vantaggio di essere tra le  più belle e le più orribili città del mondo. Riesci a provare la sofferenza del sud e l'orgoglio della grande capitale.
L'atteggiamento criminale, di scavalcare quell'idea debole di Stato, mi ha in più occasioni suggestionato e spinto a muovermi in modalità non sempre corrette all'interno del sistema dell'arte. 
L'idea di eclissare le regole, le convenzioni, l'istituzionalità del sistema da l'opportunità di fare l'artista in un modo diverso, di contrabbando.

MC
Credi che abbia senso occuparsi d’arte contemporanea oggi all’interno di un sistema, quello dell’arte, a parer mio assolutamente dissociato dal mondo reale?

SM
Ha senso se lo si attraversa di striscio, in modalità clandestina, senza carta d'identità, completamenti soli, senza certificati, senza casa, affamati, nella mischia, in fila alle mense dei poveri. Ha senso se la tua riflessione sana ferite, incoraggia, premia e libera.
Ha senso se non hai invidia, ma pena per chi è avaro. Se ti emozioni per le cose piccolissime.
Se non hai bisogno di loro, se è importante per te capire ancora.
Ha senso se lo si combatte, se si esce per strada, se si abbracciano le persone, se si copia la natura come se fosse necessario farlo. Se sei libero di poter cambiare, di essere felice dentro e fuori di esso.
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Casamadre

6/28/2013

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Quando Mimmo Paladino realizzò la sua Montagna di sale nel 1995 a Piazza del Plebiscito ero ancora uno studente dell’Accademia di Belle Arti. 
Napoli non era più quella che avevo vissuto al Liceo Artistico, anche il vicolo di Donna Regina era stato ripulito, via le siringhe sporche di sangue ed eroina, via anche la Pittura dell’Ottocento Napoletano dagli uffici barocchi delle istituzioni. 
Totonno ‘o fraulese, per l’Italia Bassolino, aveva portato l’arte contemporanea a Napoli. Basta con i vecchi cliché di una Napoli imbrogliona, gretta e polverosa, il vento dell’Europa soffiava forte, arrivava dal porto ed entrava in tutti i vicoli e dedali della città. Basta povertà, finalmente i soldi erano arrivati ed a prenderseli non era più la solita camorra, ma politici illuminati ed intellettuali appassionati di free jazz e minimalismo.
Mi avevano sempre detto che a Napoli l’arte contemporanea l’aveva portata Lucio Amelio, ma solo allora, Napoli, passo dopo passo, stava cambiando pelle.
Ieri ha inaugurato Casamadre nella ex  galleria di Amelio e più recentemente di Artiaco,
Eduardo Cicelyn è uscito illeso dall'emorragia economica praticata ai nostri territori dalle sue scelte culturali.
Dal Madre è passato a Casamadre, insomma sempre nei "suoi affetti" nei suoi profondi interessi.

OPENING, 27 giugno 2013
Mimmo Paladino
Jannis Kounellis
Anish Kapoor
Domenico Bianchi
Francesco Clemente
Antony Gormley
Barry Le Va
Michelangelo Pistoletto
Luciano Fabro 
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Tempo interiore

6/4/2013

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CASTEL SANT’ELMO
Tempo interiore
Rosy Rox

Rosy era sorridente all'inaugurazione, lo eravamo in tanti. Sembravamo felici, eppure, al posto delle lancette si muovevano coltelli. Ha pensato ad un tempo senza scampo, forse per questo interiore.
Forse il tempo esteriore è proprio quello dei sorrisi, delle congratulazioni, dei brindisi, della festa.
Dentro, le lame, si muovono con impulsi imprevedibili, vanno avanti e dietro, meglio prendere distanza.
Dentro il tempo, fuori da quel vento, da quel misterioso freddo di fine maggio.





Tempo interiore è l'opera dell'artista Rosy Rox che ha vinto la II edizione del Concorso Un'opera per il Castello 
Venerdì 24 maggio 2013 inaugura il progetto, che si ricollega allo “spirito del luogo”, ne ripercorre simbolicamente la memoria.
Crea un cortocircuito temporale (tra presente passato e futuro) passando per le varie epoche del castello e ricollegandosi al nostro presente.
Con un movimento circolare e tagliente, ripercorre varie fasi della repressione della libertà dell’animo umano.
Ripercorre i tracciati del dolore, della ricerca di libertà assoluta, scandisce un tempo dolorante.
Ci invita a una riflessione sulle crudeltà prodotte, tra le ombre della civiltà, nei confronti della diversità, dell’altro, della libertà di pensiero.

Un Gesto circolare che è, inoltre, contrassegno temporale, scansione della vita e della morte, che attraversa il crudele, l’atroce e il perverso: mondi sotterranei dell’umano, questi, da esplorare e da evidenziare per far risaltare la purezza dell’animo umano che coincide, sempre, con una sofferenza sottile. (A.Tolve)

Le lancette come passato presente e futuro si muovono in movimento circolare e caotico nei due sensi orario e antiorario creando una porta temporale che apre al percorso della coscienza come elaborazione diretta e non mediata di un insieme complesso di dati.
Lo scandire del tempo e la pausa silenziosa che ci porta a quell’aprirsi di infinite possibilità.
L’opera attraverso un’analisi sulla repressione crea una congiunzione simbolica tra passato e presente.
Il passato che si insinua nel contemporaneo attraverso continui rimandi, ci invita a riflettere sulla condizione del nostro presente.
(Rosy Rox)            

Rosy Rox, Napoli, Italia - vive e lavora a Napoli.

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