Salvatore Manzi, Audience 01, 2009, azione, Centro Hurtado, Napoli
A Joseph Beuys – e in particolare all’ufficio per la democrazia diretta che egli inscenò in occasione della leggendaria Documenta V di Kassel – penso immediatamente anche quando, qualche mese dopo la passeggiata sabatica, Salvatore mi spiega le modalità attraverso le quali conta di intervenire in occasione del secondo evento che, ancora insieme a Pina Capobianco ed in collaborazione con il Centro Hurtado, curo a Scampia nella primavera del 2009, Incontri di frontiera. Se la scelta del luogo, la selezione degli artisti e persino il progetto grafico, oltre che naturalmente il titolo, testimoniano esplicitamente l’intenzione di riallacciarsi alla precedente esperienza di Corrispondenze di frontiera (2007-2008), introducendo la parola “incontri” Pina ed io desideriamo evidenziare un’esigenza che sentiamo allora emergere con maggiore decisione rispetto al passato, quella di una più organica relazione, un più intenso interscambio, una maggiore osmosi con il territorio. Un territorio che non si limiti più – come ancora in Corrispondenze di frontiera – a funzionare come punto di partenza, ma divenga alfa ed omega del processo artistico.
«Mi piacerebbe creare un punto di ascolto», ci rivela appena una quindicina di giorni prima dell’inaugurazione Salvatore, dimostrandosi assolutamente in sintonia con i nostri presupposti, «vorrei stare in un posto ed essere a disposizione, per un paio d’ore, di quanti hanno voglia di parlare, di confidarsi; vorrei ascoltare, semplicemente ascoltare e magari trovare insieme la soluzione ad un piccolo problema, ad una preoccupazione…». È così che, all’orario stabilito, piazza il suo tavolino pieghevole davanti all’ingresso del centro e, essendosi posto a sedere da un lato, invita gli spettatori a fare a turno altrettanto dal lato opposto. Eppure – ricordo ad un tratto – un qualcosa di molto simile Salvatore l’ha già sperimentata quattro anni prima (2005), allorché, in occasione di una mostra collettiva dedicata all’aria, per la quale Salvatore – che allora era ancora Zak – ha presentato ufficialmente il video Aria finita, pensato appunto specificamente per l’occasione, ma durante il vernissage si è munito di una sedia e di una scrivania ed ha incominciato a ricevere gli spettatori messisi in fila. Sono certo che ne ha tratto un gran piacere e che lo ha considerato a tutti gli effetti un piacere assimilabile a quello dell’operare artisticamente, ma sta di fatto che non ha incluso né allora né mai tale operazione nel suo portfolio, circostanza forse spiegabile considerando che a quel tempo non ha ancora abbandonato la speranza di una sia pur faticosa conciliazione tra il profilo dell’artista che desidera essere e quello dell’artista “di sistema” che non può prescindere, tra l’altro, dalle ragioni della riconoscibilità e in seguito, collassato tale tentativo, si è semplicemente dimenticato di quell’episodio, ma è rimasta viva in lui l’esigenza che l’ha originato. Ma qual è in definitiva il senso più profondo dell’intervento di Salvatore a Scampia? È più vicino alla prassi di un filosofo greco nell’agorà o piuttosto al personaggio interpretato da Eduardo De Filippo nell’ultimo celeberrimo episodio de L’oro di Napoli? Si tratta di un colloquio alla stregua di quello che si tiene davanti ad un confessore o al beuysiano microistituto per la democrazia diretta che mi è subito balenato in mente? Esso non è forse esente da echi appartenenti ad ognuna di queste situazioni, ma, sostanzialmente, si colloca a notevole distanza da tutti e quattro, risolvendosi in primis in esercizio di “tempo donato” e, lo si sa, l’essere ascoltati risulta sempre mediamente assai più quotato dell’ascoltare, benché non di rado il contrario sarebbe più vantaggioso. Quel “tempo donato” sul quale si è fondata l’ultima, ma anche la più matura, attività dell’artista napoletano Lello Ruggiero che proprio qualche settimana prima è prematuramente scomparso. (Taccone Stefano, ExZak, Phoebus, 2014, Casalnuovo di Napoli, pp.74-75) |