Salvatore Manzi, Lapidazione analogica, 2009, Spazio Ventre, azione, videoinstallazione
Il 2009 è del resto anche l’anno in cui comincia a venire seriamente a galla la questione della disinvolta “utilizzazione finale” del sesso femminile da parte del presidente del consiglio in carica: è l’anno del caso Noemi Letizia e di quello Patrizia D’Addario – per Ruby bisognerà “attendere” oltre un anno dopo –, tutte faccende che, se senza dubbio, con la complicità delle opposizioni parlamentari e mediatiche, costituiscono un formidabile elemento di distrazione – quanto mai propizio in un paese dilaniato dalla crisi –, pure, andandosi a cumulare con quella che per circa trent’anni è stata la sciagurata concezione del ruolo della donna – e del suo corpo – che le televisioni berlusconiane hanno forse addirittura in non piccola misura istituito, più ancora che espresso e veicolato, reclamano un non superficiale allarme.
Se già in Genesi la scelta di focalizzarsi sulla figura della “madre di tutti i viventi” piuttosto che su quella del “primo uomo”, può assimilarsi alla volontà più o meno concia di intervenire in difesa della donna, di esaltare la sua dignità troppo a lungo calpestata senza che alcuno muovesse un dito, anzi in presenza di una interiorizzazione sempre più capillare del principio della “donna-oggetto”, nei fatti professato anche da molti di coloro che si ritengono “di sinistra”, con Lapidazione analogica, ove è evidente fin dal titolo la peculiare volontà di calare il verbo evangelico nel quotidiano, Salvatore sembra proporre una sorta di resa dei conti finale con il berlusconismo – più che con Berlusconi –, colto nella sua più degradante accezione di spettacolo obnubilante a base di voyeurismo insaziabile, buono per ancorare ad un eterno presente – ove impugnare il telecomando a mo’ di scettro fornisce ad ognuno l’illusione di comandare senza resistenze – un intero paese, determinando il completo oblio del poter essere altro. Nell’ambito di tale progetto la donna, in una sorta di degenerazione, più che continuazione, della liberazione sessuale sessantottina – checché ne dicano i sostenitori della continuità tra Berlusconi ed il Sessantotto o tra Mediaset ed il Sessantotto – assurge a sorta di vittima sacrificale, legata al dubbio dovere di compiacersi del fatto che, in cambio delle sue “grazie”, verrà ricoperta di oro e diamanti. Un assembramento di “lapidi analogiche”, ovvero di vecchi televisori – siamo alla fine del 2009 e per strada, dato che sta per avvenire il passaggio dall’analogico al digitale terrestre, se ne trovano a cumuli –, che mostrano ininterrottamente brani di tutte le trasmissioni Mediaset ed ante Mediaset – da Drive In a Non è la RAI – che hanno contribuito nel tempo a trasformare il tessuto antropologico degli italiani all’insegna della rassicurante disponibilità incondizionata della donna ad esibire la sua presunta “parte migliore”, è posto così a schiacciare sotto il suo ingente peso un’esile donna come stecchita che diviene figura di tutto il genere femminile e delle umiliazioni subite dalla tracotanza dei bassi istinti maschili. (Taccone Stefano, ExZak, Phoebus, 2014, Casalnuovo di Napoli, pp.82-83) |
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