BV
Che rapporto hai con le opere che realizzavi come Zak Manzi, quali sensazioni provi quando le rivedi o ti tornano in mente?
SM
Non ho un buon legame con le mie opere, nel passato ho letteralmente gettato i miei lavori, la stessa documentazione cartacea di pubblicazioni, recensioni o appunti.
Spesso ho ripensamenti drastici, difficilmente una mia produzione esce illesa dal mio giudizio, sono perennemente insoddisfatto di tutto ciò che produco, devo dire che lo sono anche per ciò che non produco. Trovo sollievo solo nel processo, nella costruzione, o meglio nel riempimento. Una volta esaurita l'azione creativa, provo un profondo disinteresse per ciò che mi è dinanzi, in alcuni casi un reale fastidio.
Mi è capitato di lavorare per più di due mesi ad un quadro, "completarlo" e poi ricoprirlo per un crescente sentimento di insofferenza, ogni opera, forse, una volta prodotta, andrebbe cancellata.
Nessun'opera, forse, dovrebbe durare più di un'esigenza.
"Zak Manzi" ha agito in modalità variegate, è stato un mio pseudonimo, ma allo stesso tempo anche una sigla dietro la quale hanno agito componenti espressive molto distanti da me, provo più piacevolezza nel ricordare quegli interventi nei quali di mio c'era solo la firma.
Avverto un senso di estraneità verso quel periodo, le opere "sopravvissute", da qualche anno, ho iniziato a difenderle a testimonianza di una lotta, per quel mio primordiale desiderio di rinuncia creativa e di riduzione di senso.
Riesco a trovare una linea di congiunzione con quel periodo e quello attuale, se sposto l'attenzione dal prodotto e mi soffermo su questa sorta di escalation di intenti, che rimandano al dilemma indagato durante la Biennale di Venezia del 1972: opera o comportamento.
BV
Oltre ad essere un artista insegni all'Accademia di Belle Arti, cosa pensi sia importante trasmettere ai giovani artisti che si stanno formando in questi anni?
SM
Molti dei giovani che ho conosciuto in questi anni si avvicinano all'arte con presupposti molti differenti del mio passato. Sostanzialmente la loro posizione non si basa su una contrapposizione ad un sistema, o su una graduale ricerca di attenzione, di consenso. La crescita di sistemi alternativi a quelli tradizionali attira i giovani verso un bacino culturale più connesso e relazionale. I festival o rassegne di arte elettronica, il piacere di mettersi insieme nel costruire organismi creativi, la passione verso produzioni interattive ed elettronicamente processuali, disegnano una nuova committenza che non è più quella sacrale del collezionismo e del mercato dell'arte, ma più necessaria e comunitaria, più aziendale.
Cresce l'idea di artisti/imprenditori utili a soddisfare e dare risposte alla noia e alla cristallizzazione naturale di ogni processo commerciale, politico, industriale.
Artisti non più di corte o di stand fieristici, ma funzionali ai bisogni delle istituzioni, delle società, dei governi metropolitani.
Le stesse Accademie di Belle Arti diversificando le aree di studi in bacini più "concreti", lasciano immaginare la prospettiva formativa intrapresa.
La crisi economica, sempre più estesa, se da un lato convince le istituzioni a intraprendere percorsi non aleatori fa crescere tra i giovani, almeno credo, un diffuso desiderio di libertà.
Ai giovani con i quali entro in contatto cerco di infondere la passione per la poesia, per lo studio, per le personali curiosità. Ritengo sia importante promuovere in loro uno spirito critico, rispetto al percorso che fanno, alle mode che anche inconsapevolmente seguono. Di essere critici anche verso i propri maestri, verso la semplificazione di ogni processo. Di non aver paura della solitudine, di essere in contraddizione, di non rinnegare il loro desiderio di esprimersi, di non essere dogmatici, di non sacrificarsi in virtù di nessun modello didattico o organizzativo, di non soffocare le personali intuizioni.
Gli studenti, presi dagli esami e dalle cose da fare, dimenticano presto le motivazioni più profonde che li hanno spinti a scegliere quel percorso. L'Accademia può intristire i giovani se diventa un posto di lavoro, se non c'è spazio per cose inutili, se ogni intento deve essere finalizzato al successo mediatico o alla costruzione e confezionamento di qualcosa di comprensibile, se serve ad accaparrarsi consensi dal direttore, se diventa l'arena delle proprie frustrazioni, se esclude o diventa manovalanza intellettuale.
BV
Hai in mente un fine preciso del tuo fare arte oppure si tratta di una necessità indipendente, una sorta di "riflesso incondizionato" al semplice fatto di vivere?
SM
L'arte è sempre stato per me il rifugio di ogni mia tristezza, la voce che non usciva, le mazzate che non volevo dare. Attraverso l'arte ho trovato coraggio, è una disciplina incline al mutamento. L'arte è un viatico alla comprensione.
Il mio fare arte ha sempre avuto un fine di esplicita pacificazione, di me nello spazio. Un tentativo di dissoluzione della mia sostanza nelle altre.
Questa vita, con la sua complessità, restituisce molteplici chiavi di lettura. Sono riuscito a vivere sempre con un corpo oblungo, con la testa nel Cielo, nell'indefinito.
L'arte mi ha rivelato anche molte realtà spirituali.
Nel Cristo che scrive tra la polvere ho ritrovato il Figlio dell'Uomo che nella sua incomprensibile "scrittura" libera e salva. Segni performativi, impressi sulla natura iniziale e finale dell’uomo.
Perché sei polvere e polvere ritornerai.
Il Maestro smuove la stessa materia degli uomini, scrive con la polverizzazione di innumerevoli corpi, la corruttibilità delle nostre membra, ereditata dall’antica maledizione divina che ci accomunò nella polvere allo strisciare dei serpenti.
Segni non fissati, che compongono una composizione ancor più fragile delle tavole fatte a pezzi, dalla rabbia di Mosè. Il profeta distrugge un manufatto dell’Io sarò (JHVH).
La materia è creazione sotto gravità.
Che rapporto hai con le opere che realizzavi come Zak Manzi, quali sensazioni provi quando le rivedi o ti tornano in mente?
SM
Non ho un buon legame con le mie opere, nel passato ho letteralmente gettato i miei lavori, la stessa documentazione cartacea di pubblicazioni, recensioni o appunti.
Spesso ho ripensamenti drastici, difficilmente una mia produzione esce illesa dal mio giudizio, sono perennemente insoddisfatto di tutto ciò che produco, devo dire che lo sono anche per ciò che non produco. Trovo sollievo solo nel processo, nella costruzione, o meglio nel riempimento. Una volta esaurita l'azione creativa, provo un profondo disinteresse per ciò che mi è dinanzi, in alcuni casi un reale fastidio.
Mi è capitato di lavorare per più di due mesi ad un quadro, "completarlo" e poi ricoprirlo per un crescente sentimento di insofferenza, ogni opera, forse, una volta prodotta, andrebbe cancellata.
Nessun'opera, forse, dovrebbe durare più di un'esigenza.
"Zak Manzi" ha agito in modalità variegate, è stato un mio pseudonimo, ma allo stesso tempo anche una sigla dietro la quale hanno agito componenti espressive molto distanti da me, provo più piacevolezza nel ricordare quegli interventi nei quali di mio c'era solo la firma.
Avverto un senso di estraneità verso quel periodo, le opere "sopravvissute", da qualche anno, ho iniziato a difenderle a testimonianza di una lotta, per quel mio primordiale desiderio di rinuncia creativa e di riduzione di senso.
Riesco a trovare una linea di congiunzione con quel periodo e quello attuale, se sposto l'attenzione dal prodotto e mi soffermo su questa sorta di escalation di intenti, che rimandano al dilemma indagato durante la Biennale di Venezia del 1972: opera o comportamento.
BV
Oltre ad essere un artista insegni all'Accademia di Belle Arti, cosa pensi sia importante trasmettere ai giovani artisti che si stanno formando in questi anni?
SM
Molti dei giovani che ho conosciuto in questi anni si avvicinano all'arte con presupposti molti differenti del mio passato. Sostanzialmente la loro posizione non si basa su una contrapposizione ad un sistema, o su una graduale ricerca di attenzione, di consenso. La crescita di sistemi alternativi a quelli tradizionali attira i giovani verso un bacino culturale più connesso e relazionale. I festival o rassegne di arte elettronica, il piacere di mettersi insieme nel costruire organismi creativi, la passione verso produzioni interattive ed elettronicamente processuali, disegnano una nuova committenza che non è più quella sacrale del collezionismo e del mercato dell'arte, ma più necessaria e comunitaria, più aziendale.
Cresce l'idea di artisti/imprenditori utili a soddisfare e dare risposte alla noia e alla cristallizzazione naturale di ogni processo commerciale, politico, industriale.
Artisti non più di corte o di stand fieristici, ma funzionali ai bisogni delle istituzioni, delle società, dei governi metropolitani.
Le stesse Accademie di Belle Arti diversificando le aree di studi in bacini più "concreti", lasciano immaginare la prospettiva formativa intrapresa.
La crisi economica, sempre più estesa, se da un lato convince le istituzioni a intraprendere percorsi non aleatori fa crescere tra i giovani, almeno credo, un diffuso desiderio di libertà.
Ai giovani con i quali entro in contatto cerco di infondere la passione per la poesia, per lo studio, per le personali curiosità. Ritengo sia importante promuovere in loro uno spirito critico, rispetto al percorso che fanno, alle mode che anche inconsapevolmente seguono. Di essere critici anche verso i propri maestri, verso la semplificazione di ogni processo. Di non aver paura della solitudine, di essere in contraddizione, di non rinnegare il loro desiderio di esprimersi, di non essere dogmatici, di non sacrificarsi in virtù di nessun modello didattico o organizzativo, di non soffocare le personali intuizioni.
Gli studenti, presi dagli esami e dalle cose da fare, dimenticano presto le motivazioni più profonde che li hanno spinti a scegliere quel percorso. L'Accademia può intristire i giovani se diventa un posto di lavoro, se non c'è spazio per cose inutili, se ogni intento deve essere finalizzato al successo mediatico o alla costruzione e confezionamento di qualcosa di comprensibile, se serve ad accaparrarsi consensi dal direttore, se diventa l'arena delle proprie frustrazioni, se esclude o diventa manovalanza intellettuale.
BV
Hai in mente un fine preciso del tuo fare arte oppure si tratta di una necessità indipendente, una sorta di "riflesso incondizionato" al semplice fatto di vivere?
SM
L'arte è sempre stato per me il rifugio di ogni mia tristezza, la voce che non usciva, le mazzate che non volevo dare. Attraverso l'arte ho trovato coraggio, è una disciplina incline al mutamento. L'arte è un viatico alla comprensione.
Il mio fare arte ha sempre avuto un fine di esplicita pacificazione, di me nello spazio. Un tentativo di dissoluzione della mia sostanza nelle altre.
Questa vita, con la sua complessità, restituisce molteplici chiavi di lettura. Sono riuscito a vivere sempre con un corpo oblungo, con la testa nel Cielo, nell'indefinito.
L'arte mi ha rivelato anche molte realtà spirituali.
Nel Cristo che scrive tra la polvere ho ritrovato il Figlio dell'Uomo che nella sua incomprensibile "scrittura" libera e salva. Segni performativi, impressi sulla natura iniziale e finale dell’uomo.
Perché sei polvere e polvere ritornerai.
Il Maestro smuove la stessa materia degli uomini, scrive con la polverizzazione di innumerevoli corpi, la corruttibilità delle nostre membra, ereditata dall’antica maledizione divina che ci accomunò nella polvere allo strisciare dei serpenti.
Segni non fissati, che compongono una composizione ancor più fragile delle tavole fatte a pezzi, dalla rabbia di Mosè. Il profeta distrugge un manufatto dell’Io sarò (JHVH).
La materia è creazione sotto gravità.