Salvatore Manzi
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Testo in catalogo di Nicola Zucaro -Immagine Alcuna - IOD edizioni, 2019

​IMMAGINE ALCUNA
Un contesto insolito, un luogo trasformato in spazio di “azione”, un evento che intercorre tra corpi, territori, soggettività e dimore. Una scelta, quella di Salvatore Manzi, che a prima vista mette in risalto, tramite installazioni che fungono da interferenze, i conflitti politici che genera il suo tipo di intervento in uno spazio già fortemente caratterizzato come quello di una chiesa, quella di Sant’Erasmo a Napoli. Ci troviamo difronte ad un’analisi contigua che va al di là delle divisioni disciplinari e che rimanda al dialogo storico/politico mai interrotto nel corso dei secoli tra arte e religione. Un’indagine fenomenologica della religione, della fede e del sacro rivolta al recupero della matrice storica del vissuto contemporaneo in termini di memoria e di cultura popolare e materiale, dove la ricerca creativa personale di Manzi, già celata in una notevole complessità astrale/astratta, è in divenire.
L'artista fa del suo lavoro un personalissimo metodo di indagine sul ruolo della scultura, dell’architettura, dell’abitare, ragionando sulle motivazioni culturali alla base di queste, rifacendosi, seppur in maniera antitetica, a quelle questioni aperte negli anni Settanta, quando, nell'ambito dell’arte pubblica, la scultura, era alla ricerca del ruolo da assumere in rapporto alla storia, alla memoria e alla socialità.
Per Manzi, il suo vissuto mnemonico e la sua esperienza spirituale legate a quella artistica sono fondamentali per poter determinare in parte questa mostra che si presenta come un’analisi degli oggetti concreti e dei segni dell’uomo legati all’atteggiamento della civiltà europeo-occidentale attraverso le forme culturali del mondo popolare subalterno. Percorrendo quei regimi di luce e ombra propri di un qualsivoglia dispositivo, distribuisce e analizza il visibile e l’invisibile: tramite trasparenze materiali, estetiche del vissuto, spazi espositivi in tensione, folklore, simbolo, mito e ritualità, assetta un ambiente istituzionale fondendo arte contemporanea e architettura. Affronta la scultura in un'arcaica chiave antropologica, stimolato dagli oggetti dell’uomo, dai suoi spazi e dalle sue relazioni.
È chiaro che in questa mostra lo scenario culturale dell’occidente e tutto il paesaggio formato dai suoi stessi utenti rappresenta il luogo, lo spazio e il campo operativo dove l’artista firma/ferma/forma la sua pratica. Il tempo di lettura, invece, è la contemporaneità, la considerazione della storia. Qui la considerazione di Manzi, allora, diventa intempestiva. Lo è perché  come direbbe Giorgio Agamben "vede il suo tempo", lo è perché è capace di afferrarlo ponendosi in una singolare relazione con esso affrontandolo come una sorta di anacronismo, una frattura, prendendone però le distanze. Citando ancora Agamben potremmo dire che vede "il sorriso demente del suo secolo" e che se "essere contemporanei è innanzitutto una questione di coraggio", la questione di Manzi ne è la prova. Va da sé che qui abbiamo a che fare con aspetti che coesistono tra arte e società ma anche con quegli aspetti dove l’arte ha a che fare con la politica e con la vita. È di primaria importanza, sia da parte dell’artista, sia da parte mia, dare un giusto peso a questi binomi per non restare intrappolati in utopie o cadere in ideologie cieche. È analizzando le sue frequenti operazioni artistiche deambulatorie, definite cosmizzazioni, dove si riflette la storia, l’anima del popolo e quella vita/movimento che egli esprime con le sue linee e le sue forme ancestrali, che riusciamo a capire la strada da percorrere per arrivare a comprendere le reali motivazioni di questa mostra. L’artista nella sua mostra non mette in atto una contraddizione, bensì una differenza dove il dialogo avviene tra due estremità, tra due forze opposte che, mantenendo viva ogni realtà, creano armonia ed equilibrio. Tenendo ben presente il suo ministero di pastore evangelico e il contesto in cui la mostra si svolge, probabilmente il filo conduttore da tenere presente è proprio questo: delocalizzazione, relazione e dialogo come libertà e rivoluzione. È da queste riflessioni che, a mio avviso, si sviluppa la ricerca di Manzi.
Un percorso espositivo site specific che si articola in due momenti disgiunti per la variabilità del medium e che trovano, poi, consonanza nell’ambiente che compone la sede espositiva. Un gioco di relazione tra spazio costruito e contesto, dove gli oggetti, situati in un vuoto assoluto, e installati dall’artista con rigore e austerità, diventano pura forma producendo anche della sottile ironia.
In Immagine alcuna vediamo “sacrificato” il “marchio” dell’artista nell’antropomorfismo (se così possiamo dire) che si materializza e si fa immagine nei suoi pali (Foresta cosmica) e nella sua luminaria (Settenari) esposta e scagliata nel "buio" con l’intento di dissolvere e, allo stesso tempo, ricostruire l’essenziale dell’immagine e il suo rovescio. Una poesia profetica del rito (Legge perpetua) mostra delle mani femminili che piegano su se stesso un panno di lino. Un culto, un rito che fa trasparire l’essenza del femminile ma anche tutto ciò che esalta la dedizione e l’abnegazione della pratica quotidiana secondo il pensiero giudaico-cristiani.
Dunque, rifacendosi al precetto aniconico del Decalogo, Manzi ci mostra anche il suo interesse per quella ricerca sulla natura del linguaggio artistico, ossia il concetto, dove l’idea si esprime linguisticamente riflettendo sul rapporto tra rappresentazione iconica e verbale con quella povertà/essenzialità suggestiva,per la quale tutta la creatività si risolve in pochi elementi definitivi e poche forme “indistruttibili”. Il titolo della mostra nasce da un riferimento biblico ben preciso: «Non ti farai immagine alcuna…», (Esodo 20:4), dove la posizione dell’artista rispetto al tema dell’idolo e dell’immagine è critica fin dall’inizio rifacendosi indirettamente, o forse no, a quel discorso espresso da Debord nelle sue diverse tesi de La società dello spettacolo. Da questo scaturisce il tentativo di cogliere l’attualità dei modi della vita quotidiana in relazione alla centralità delle immagini e in relazione a ciò che queste producono. La possibile spettacolarità di cui parla opportunamente Manzi è situata in uno strano confine, in quei punti di vertigine, dove la vita coincide con l’universo della multimedialità e con il mondo delle tecnoimmagini, sempre a un passo dalla spettacolarità prodotta dal mondo dell’universo mediale o virtuale, dove la vita accelera il suo corso e dove non c’è frammento quotidiano che non sia carico di elaborazione estetica e dove tutto questo coincide con quegli ordini e con quegli statuti gerarchici simbolici imposti. Quei territori in cui avviene, da sempre avviene, la formazione sociale e culturale.
Attenendosi alla spettacolarità del mondo della vita e al mondo degli eventi mediali, ma lungi dalla critica apocalittica dei simulacri e dai discorsi retorici, l’artista incontra il suo “confine”; ed è proprio in questo momento che sogna l’opera dell’arte. Le sue immagini/sculture/installazioni, già cariche di significato, poste in uno “spazio nuovo”, annunciano ciò che questo intervento è per lui: il superamento dell’icona come per farci percepire quel “silenzio” per dire Dio totalmente altro. Veniamo assaliti da un’opacità che è la creazione della sua stessa “icona”, e che, posta in un assoluto realismo e in un assoluto silenzio, diventa quella «porta regale» attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si trasfigura il visibile: si indaga il sacro per poter arrivare alla definitiva costruzione di una “immagine alcuna”, pura ma ruvida. Si tratta di qualcosa che costituisce l’altro del visibile, di qualcosa che rende il comunicare destabilizzante e fragile, di un qualcosa che ci fa vacillare. Ci troviamo in un evento che gioca una partita ai bordi tra l’umano e qualcosa che va oltre la possibilità dell’umano stesso; in un evento che si produce in un archi-spazialità (spazialità minima/spaziosità dell’apertura), come gioco di una spaziatura di presenze-assenze.
Questa considerazione dello spazio rende possibile il verificarsi dell’evento dove l’immagine raggiunge la sua singolarità, il suo stato celeste, ossia la forza mobilitata per creare il vuoto, per liberarsi della memoria e della ragione, per poter accedere all’indeterminato. Come l’immagine accede all’indeterminato, così pure lo spazio gode di potenzialità, seppur esigua, nella misura in cui questo offrendoci la sua vastità e la sua specificità si trasforma liquidamente in uno spazio “senza qui né altrove”. Manzi, quindi, ci mostra l’immagine sia come energia dissipativa, come strumento della fine,in quell’analisi/ rapporto di prossimità divergente fra l’immagine e il sacrificio; sia come ritornello che mediante le sue piegature, tramite il video, fanno dell’immagine un processo, un’immagine sempre sul punto di prendere forma che esaurisce, tramite la ripetizione, analogamente alla prima operazione artistica, la potenzialità dello spazio magnetico del monitor: una voce intona “Oilì oilà viva la libertà”, un’evocazione, un’invocazione che scandisce l’immagine facendone non più una rappresentazione ma un movimento dello spirito. È in questi termini che l’immagine assume tutta la sua complessità divenendo un soffio, quel soffio vitale che tocca le radici della nostra esistenza. Quello che per Manzi conta nell’immagine, e dell’immagine, è questa forsennata energia che fa sì che non duri a lungo, ma si confonda, restando furtiva, messa fuori e davanti agli occhi, mostrandoci la sua forza, la sua energia, il suo impulso e la sua intensità, come ciò che avviene nel miracolo di Sant’Erasmo.
Non è facile comprendere il senso esatto di questa mostra: qui si elabora un evento in cui è possibile attraversare, tramite l’arte, – e come solo l’arte è capace di fare  –  l’universo della multimedialità (arcaica e attuale) cercando di comprendere quella riduzione ad immagine del reale interrogandosi tra comunicazione e potere mediante diversi medium, tracciando pericolosamente, quel mobile confine tra il nuovo bene e il nuovo male; significa dire, infine, il “politico”. Inoltre, veniamo esposti a quelle corrispondenze tra la creazione materiale e la creazione spirituale mediante l’incontro dell’oggetto sensibile e dell’oggetto di pensiero, laddove ha origine l’equivoco, laddove si unisce anima e corpo in un estensione dello spazio e del tempo, al di là, al di sopra di ogni manifestazione sensibile. Un’indagine tra il corporeo e lo spirituale, tra l’individuo e il suo universo, tra oggetto di pensiero e soggetto pensante mediante l’attraversamento del simbolo e dello spazio dove la vita quotidiana si svolge.
Salvatore è un esploratore, uno sperimentatore: un viaggiatore cosmico. In immagine alcuna le cose avvengono in profondità e in altezza: una vita; il silenzio; il segreto. Questo è quello che io ho saputo vedere…

​Nicola Zucaro


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Paola de Ciuceis, Il Mattino, 10 marzo 2015

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COMUNICATO STAMPA

Salvatore Manzi
PRIMA DI ME
A cura di Stefano Taccone


Sede espositiva: Spazio EVENTITRE, Via Blanch, 23(P.zza Nazionale) 80147 – Napoli Inaugurazione: venerdì 25 settembre 2015 – ore 19:30 – 22:00
Durata: 25 settembre – 6 novembre 2015
Per informazioni al pubblico: Tel. +39 081 0484111 – cell. 320 6564903
E–mail: massimiliano.cafaggi@tin.it – Sito web: www.eventitre.net

L’antica tendenza al rifiuto non solo di un’autorialità forte, ma proprio del lavoro artistico stesso come atto, ridotto ad un coefficiente minimo; la figura etica e spirituale della lacerazione sulla quale la guarigione appone il suo balsamo chiaro conservando nondimeno la traccia dell’originaria frattura; l’evidenziazione di ciò che non viene messo in scena, ed anzi va occultato, eppure è l’a priori e l’a posteriori di ogni esposizione, quasi sviluppando nuove, ancora mai esplorate, soluzioni della critica istituzionale classica: sono questi i motivi che confluiscono nella nuova mostra personale di Salvatore Manzi "Prima di me", un’operazione che parte dai segni incidentali, involontari, inestetici, che però si incontrano in ogni contesto espositivo che possieda un minimo di storia, per assecondarli trasformarli in un macrosistema spazio-visivo attraverso il risalto luminoso del giallo, versione impoverita dell’oro, carico di immaginario sacrale. “Prima di me” perché il progetto di Salvatore non sarebbe stato possibile senza tutto ciò che in quello spazio è passato prima di lui, compresa la sua stessa mostra di un anno e mezzo fa; “Prima di me” perché prima di ogni momento presentativo c’è tutto un lavoro di impalcature e ponteggi, che vengono abbattuti però sempre troppo presto per essere esteticamente valorizzati; “Prima di me” come suggestione più o meno conscia ancora una volta della parola biblica cristiana, ove però naturalmente all’ “io sono” del divino si sostituisce l’ “io non sono” dell’artista ancora una volta assente. (Stefano Taccone)


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Carla Rossetti, Salvatore Manzi, in SEGNO, Pesacara, anno XLI, n. 256, p. 72. ISSN: 0391-3910, gennaio/marzo 2015

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Franco Cipriano
Oltre il senso

L’evento ‘creante’ dell’arte. Tra immagine e astrazione, realtà e visione
Da Giotto verso l’opera religiosa di Salvatore Manzi

Un “inizio” che le trascende: l’arte e la religione hanno in comune questo evento. Nel loro manifestarsi adombrano il riflesso di un invisibile che le costituisce e che risuona nelle immagini e nei segni del loro ‘operare’, opere d’arte e opere di Dio. Sono epifanie di  ‘altro’ senso che rivelano nella loro ‘reale’ presenza le apparizioni che provengono dal profondo (caotico e cosmico: la cometa dell’Epifania cristiana che appare improvvisa nell’oscurità notturna) e inquietano lo spirito. Con il loro movimento creante, irrompono nel senso del tempo e ne oltrepassano i confini. Vie d’accesso a esperienze dell’incomprensibile e dell'irrangiungibile.  Differenti e in dialogo, arte e religione – fuori da schemi e convenzioni dei “tradizionalisti” o dei “modernisti” – sono “mania profetica”, cioè un’eccedenza che “fa mondo”, indica un destino di alterità; per l’arte l’oltre è nel suo linguaggio, per la religione l’oltre è presupposto della sua narrazione.  Il termine mania per i greci indicava la disposizione della mente ad andare oltre i limiti, in forme estreme del conoscere. In quest’accezione, origine del cambiamento è “il volo della mente”.

L’arte - antica, classica, medievale e moderna- con fratture e discontinuità radicali quanto inattese, ha rappresentato l’incrociarsi del suo enigma “creativo” con l’indicibile del tempo dell’uomo. Tra corpo, linguaggio dell’arte, bellezza, natura e mondo si è estesa la domanda – come  riflessione dell’anima – del mondo occidentale sulla soglia tra il tempo e l’eterno. È l’interrogarsi persistente e ineludibile, necessario, a informare il cambiamento delle forme espressive, a cercare un passaggio tra l’evidente e l’ignoto, tra il senso e il ‘non-senso’.

Il ‘venire al mondo’ di ciò che non è nel nostro comune pensare è “scandalo”. È  il manifestarsi di qualcosa che eccede la nostra narrazione del tempo, sta fuori della nostra capacità di comprensione immediata dell’enigma delle cose umane. È essenziale cambiamento che ci sospende in un altrove della mente, là dove la ‘ragione quotidiana’ non riesce a dimorare. Per il credente la possibilità di abitare l’alterità è nella Fede, per il non credente è nell’interrogazione inesausta del mondo, ma per entrambi, come indicò il Cardinale Martini, la ricerca della verità custodisce l’ombra del dubbio.

Il corpo di Gesù – annunciato, nato, crocifisso, risorto - è evento incomprensibile dal pensiero logico: non semplicemente ripetizione del ‘nuovo’ – nuovo profeta o nuovo sapiente – ma inaudita differenza nell’indistinta opacità del nostro ‘essere al mondo’. Nel divino che s’incarna è  il paradosso della Storia, si fa uomo il Dio e avviene a  corpo del Sacrificio per  inaugurare il tempo della Redenzione e della Rivelazione.  Evento che ‘mette in crisi’ la visione umana delle cose e cambia il mondo. Non è semplice rinnovarsi del corso storico. Il concetto di “nuovo” dice che da innovare è qualcosa lo preceda: una forma, un pensiero, una vita, una produzione evolutiva di varietà ‘creative’. L’Evento invece è il manifestarsi che avviene come suscitato da potenza indecifrabile che si rivela, che apre alla finitudine le porte dell’infinito, a un altro sguardo sul senso del mondo, oltre il senso medesimo, in una radicale metanoia dell’esperienza che accede all’ascolto dell’immemoriale, perché fuori dal tempo.  Il Tempo dell’Avvento dell’irruzione del divino come umano tra gli umani, è il paradossale rivelarsi di un Dio che si ritrae per fare del Figlio la sacrificale, corporea parola dell’Annuncio.

L’arte come la Lieta Novella cristiana è evento di ‘possibilità dell’impossibile’ che trasformano l’idea del mondo. Annunciandosi come ricerca generante eventi del linguaggio, è l’arte che fa risuonare le cose di alterità, della differenza che possono già essere o dell’inaudito che possono rivelare.

La rappresentazione umana dell’arte/nell’arte è profondamente cambiata dall’eccedenza immaginativa dell’incarnazione divina. Anche qui non si tratta di ‘novità’ in adattamento a ‘nuove forme’ di un pensiero fondamentale ‘progressivo’, ma di uno sconvolgimento dell’essenza dell’immagine, che cristianamente risuona dell’altro di sé. Mentre la imago pagana è di visione idolatrica, simulacro, mero simbolo delle potenze naturali, il volto  e il corpo cristiano sono ‘icona dell’Altro’,  allegoria della creazione divina . 

Lo spazio umano e la presenza del divino sono l’essenziale cambiamento della pittura di Giotto. Che muove dalla spiritualità delle iconografie bizantine ma conduce l’immagine al terrestre legame con il divino, nella risonanza della narrazione evangelica. La sua Natività è un pensiero radicalmente nuovo, che mette in questione l’arte come rappresentazione cultuale e apre il cammino dell’arte cristiana occidentale. Ma anche in Oriente la pittura è in movimento. Nella continuità dell’iconografia del “Santo Volto” dell’Icona  ( indicata anche come “archeiropoietòs”, che traduce “non fatto da mano d’uomo”) irrompe una narrazione che diviene Teologia visiva. Il monaco russo Andrej Rublëv, il più grande e singolare pittore di Icone, fatto Santo, fa dell’immagine un’articolazione complessa e insolita che tende a uscire dalla ieraticità figurale per far splendere la luce divina non come sfondo ma nel corpo stesso delle figure dipinte. Nella Natività attribuita a Rublëv o alla sua scuola,  la figura centrale, sproporzionata rispetto al circostante, è Maria distesa come partoriente, intorno alla quale ruotano gli angeli, i pastori, Giuseppe e altre donne. La luce dorata pervade tutta la scena e sembra scaturire da un abisso ‘formato’ dallo sviluppo a cerchi concentrici dell’icona che ha come origine l’oscuro spazio della caverna. Il tempo del racconto è sconvolto dalla compresenza topologica di fasi diverse come dalle sconnessioni dimensionali e dalle traiettorie degli sguardi. Immanenza e trascendenza della pittura qui non sono in simboliche rappresentazioni ma nell’esperienza medesima dell’artista, nella cui mano ‘creante’ è la  memoria del sacro che si riflette nella divina narrazione.

Passando per alcune ‘stazioni’ nodali dell’arte occidentale che incrocia la visione religiosa – come, tra le altre, l’opera di Caravaggio, Piero della Francesca, Zurbaran, Beato Angelico – la vicenda dell’immagine “spirituale” dell’arte s’imbatte nell’evento decisivo della astrazione. Più che da origini iconoclastiche, l’arte astratta nasce come eco del profondo delle cose.  Nasce quando la ‘rappresentazione’ del reale fa ostacolo al ‘chàrisma’ del colore, della forma e dei segni, originaria scrittura visiva dei percorsi del pensiero e del ‘sentimento’  nel mondo e fuori del mondo. In avventure della materia e del gesto che generano dimensioni altre del visibile come spazio memoriale del mistero, quando le cose e il loro senso non ci sono, ma v’è il signum che dice, tra nascondimenti e apparizioni del linguaggio, l’invisibile del mondo. Malevic  scava la tela con abissali spazi neri che sono il controcanto degli ori delle icone, Mondrian iniziando dalla struttura dell’albero indaga le costanti matrici della physis nelle linee verticali e orizzontali incrociate che assurgono a simbolo del primario legame tra terra e spirito.  In Rothko sospese spazialità cromatiche sono visioni mistiche del creato,  oltre il senso del conosciuto, essenziali campi di luce della luce.  E Yves Klein nel suo personalissimo blu materializza tracce del quotidiano nelle tonalità liriche del colore che trascende la materia medesima.  Fontana invece buca la tela e la materia per aprire varchi all’ignoto di ulteriori dimensioni del pensiero vedente.  Anche nella ‘erranza’ dei linguaggi espressivi della moderna contemporaneità, l’arte è memoria del mistero. Condensando la sua espressione in pensieri ‘radicali’oltrepassa il ‘senso’ e accede allo spazio dell’irrappresentabile. Il cambiamento della pittura è il mutamento del rapporto tra soggetto e mondo, tra verità e realtà. Un'altra via dell’esperienza s’inoltra a cercare ‘inspiegabili’ eventi, germinanti cammini come quello del giovane artista napoletano Salvatore Manzi. Con gesto lento come meditazione e preghiera, tesse superfici con segni ‘iniziali’, prelinguistici, come incisioni originarie dell’essere.  La tela si fa corpo di luce, modulato dalla graphia, ha la fluttuazione di uno splendore lontano che cerca varchi. La pittura di Manzi, aniconica e iterativa, ha l’andamento monodico dell’invocazione rituale, paziente e monogenica pratica del gesto che, su fondi oro in memoria d’Icone, segna e ripete, come a prolungare all’infinito la silente risonanza  dell’invisibile. Una contemporanea intensità religiosa della pittura.


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Testo in catalogo di Stefano Taccone -TERRITORIO INDETERMINATO - Gianni De Tora - Paparo edizioni. 2013

Un artista in continuo dialogo. Doveva essere un pomeriggio del febbraio del 2004 quando - ancora studente universitario e quasi completamente a digiuno di rapporti diretti con artisti in carne ed ossa, ma anche con una grande voglia e curiosità di conoscerne e confrontarmi con loro sui fatti dell’arte – decisi di tornare a visitare l’antologica che Gianni De Tora teneva proprio in quel periodo al Maschio Angioino, pur essendoci già stato un paio di settimane prima, proprio perché avevo letto nella griglia degli appuntamenti delle pagine napoletane de “La Repubblica” che l’artista sarebbe stato presente quel giorno. Avendo finalmente raggiunto l’ultimo piano - dove si trova la Sala della Loggia, che ospitava appunto la mostra –, entrai con la massima discrezione e lo trovai nel bel mezzo di un’animata discussione con altre due persone – non so chi fossero – sulla questione della tolleranza ed il rispetto reciproci tra culture e religioni – erano gli anni del post 11 settembre. Solo quando la diatriba si fu placata riuscì ad avvicinarlo ed a scambiare alcune parole con lui, così da poter sperimentare subito quanto i buoni principi che così accanitamente aveva poco prima difeso a parole fossero – cosa da non dare mai per scontata - anche profondamente radicati in lui e pienamente esperibili nei suoi modi ed atteggiamenti.

Col tempo imparai anche a capire comedi tale peculiare attitudine etica si potessero - senza alcuna forzatura - rinvenirecorrispondenze nella sua stessa poetica:se infatti già il piglio quasi “da geometra” – prima ancora che geometrico – che connotava l’impianto generale dei suoi dipinti negli anni settanta appariva contrappuntato da una «struttura minore» indubbiamente, come rilevato da Enrico Crispolti, «molto più varia e articolata»[1]– benchélinee e colori mantenessero sempre rispettivamente una politezza ed una piattezza da tavolo da progettista –, a partire dai primi anni ottanta egli instaurava un complesso dialogo tra certezza delle forme-segni e caos magmatico in cui esse risultavano immerse, facendosi così il tutto figura di una dimensione ontologico-esistenziale ove - in consonanza con un postmodernismo certo debolista ma non disperatamente nichilista – la razionalità discorsiva non smarrisce senso e dignità, ma appare sempre temperata e relativizzata dall’irriducibilità della differenza e dell’inquietudine.

In termini parimenti non elitari ed autosufficienti Gianni intendeva infine i suoi rapporti con i colleghi artisti e con quanti si occupassero o si dilettassero a vario titolo di arte e di cultura in genere, desideroso di smentirequelle «convinzioni inculcate da una superficiale letteratura, che ha sempre etichettato l’artista come individualista ed egocentrico» e forte del suo aver costantemente cercato con convinzione «il confronto ed il lavoro di gruppo» non solo in occasione del celebre sodalizio di Geometria e Ricerca, ma anche nel piacere di «prendere parte a tutte quelle iniziative che possono stimolare: dialogo, provocazione estetica e nuove ipotesi destabilizzanti di una cultura retriva, stereotipata e conservatrice».[2]Da qui anche la sua particolare curiosità ed attenzione per le nuove generazioni – gliela lessi negli occhi anche quel primo giorno che lo incontrai, conscio che a Napoli non capitasse ahimè tutti i giorni che un poco più che ventenne aspirante critico si interessasse al lavoro di un artista locale ormai storico, ma non baciato, al pari della stragrande maggioranza dei colleghi operanti sul territorio, da un successo internazionale – che aveva esplicato peraltro per decenni attraverso l’insegnamento presso il liceo artistico, nonché l’idea – da me messa in pratica su sollecitazione di Stefania e Tiziana De Tora – di selezionare quattro artisti di più giovane generazione che instaurino un dialogo - puntuale ma anche assolutamente aperto ed imprevedibile – con la sua opera,associando ognuno di essi ad un decennio specifico del suo percorso maturo.

Con le razionali e rigorose ma articolatecomposizioni che si sono dette tipiche degli anni settanta si cimenta così il neogeometrico Vincenzo Frattini  (Salerno,1978), da lungo tempo impegnato in una tutt’altro che facile conciliazione tra premesse che «fossero pure involontarie», scrive Stefania Zuliani, non possono non riconoscersi«nella grande pittura astratta del primo Novecento»[3] - con tutto il portato ideale che la connota - e contesto storico e sociale, oltre che plastico-visivo, radicalmente mutato.

Con gli anni ottanta il pendolo tende nettamente verso la dissoluzione della scansione ordinata delle superfici ed in favore di campiture più vibranti e profonde, ulteriormente dinamizzate dal frequente emergere di elementi segnici. Con tale metamorfosi si relaziona Salvatore Manzi (Napoli, 1975), recentemente approdato ad un’astrazione ove senso di trascendenza, riflessione sul concetto di tempo, ispirazione neoiconoclasta e riferimento agli alfabeti dell’antichità –cui peraltro, specie in quel decennio, guardò anche De Tora – confluiscono in una pratica che rinviene proprio nel segnoil suo fondamento espressivo.

Gli imprevedibili rimescolamenti degli anni novanta sono interpretati da Nunzio Figliolini (Napoli, 1965) attraverso un miniciclo di quadretti-cartello che sintetizzano il suo pure inquieto percorso tra impulsività del gesto e canone geometrico, fino ad approdare all’attuale sintesi all’insegna del “digitale”.

Neal Peruffo (Procida – NA, 1980), infine, si confronta con le complesse intersezioni geometriche degli ultimi anni di vita sistemando sul soffitto alcuni pannelli costellati da elementi grafici che, inizialmente solo prodotti incidentali di un procedimento matematico finalizzato alla realizzazione di composizioni musicali visive, vengono riterritorializzate come elementi in sé significanti.

 Stefano Taccone

[1]E. Crispolti, catalogo della mostra personale, Galleria “Artecom”, Roma, novembre 1975.
[2]G. De Tora, Le ragioni dell’operare, dicembre 1998.
[3]S. Zuliani, Esercizi di armonia ,  testo inedito.


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COMUNICATO STAMPA DISTURB
Salvatore Manzi “Untitled 1945”
a cura di: Raffaella Barbato

dal 22 aprile al 12 maggio inaugurazione domenica 21 aprile 2013 ore 19,00-
Dopo la pausa invernale, l’attività espositiva siglata Di.St.Urb. riprende con il consueto appuntamento domenicale, il 21 Aprile alle ore 19:00, con una personale a cura di Raffaella Barbato. Ospite dello spazio in via Nazionale a Scafati, l’artista napoletano Salvatore Manzi (1975), con un intervento pittorico site specific, -Untitled 1945- cui è demandato il compito di raccontare la sua evoluzione artistica. Salvatore Manzi, esordisce nel mondo dell’arte con lo pseudonimo di Zak, per poi riappropriarsi di quel nome prima ritenuto troppo meridionale e farne espressione di un attaccamento geografico esibito e rivendicato nei suoi lavori mediatici. Video e piccoli spot in cui affronta con amaro sarcasmo problemi sociali vicini e lontani: parodie tra il serio e il faceto per un’arte impegnata e parzialissima. Quando, tuttavia, il linguaggio scelto per le sue denunce in forma d’arte ha finito col fagocitare la sua opera, costringendola in un cliché che l’ha svuotata di senso, Manzi ha scelto la pittura e, con essa, un’arte capace di permeare anche nella sua dimensione privata, di uomo. Non a caso, infatti, le pennellate sono tutte ordinate sulla tela secondo moduli che hanno tangenze con i suoi studi teologici ed ecumenici, mentre lo stile spesso giocato su bicromie sembra non accorgersi affatto dell’esistenza plastica delle cose, piuttosto ‘vedere ed esprimere il mondo come un tappeto disteso di superfici variegate e null’altro' (R. Longhi). Eppure, questa crisi non dimentica il passato militante, e da privata diventa collettiva e simbolica in un non titolo accompagnato dal numero 1945: a questa data –che designa un momento cruciale per la storia–, Manzi giunge procedendo a ritroso nel tempo, dall’anno – quello corrente – che segna il grado zero della sua arte. Pubblico e privato che ritornano in equilibrio senza sbilanciamenti, ripristinando il naturale equilibrio tra la crisi del singolo e quella di un’epoca.

Di.st.urb. (Distretto di studi e relazioni urbane/in tempo di crisi), spazio dedicato alle arti visive annesso al circolo culturale Ferro3, si pone l’obbiettivo di attirare ed aggregare un ampio e diversificato gruppo, costantemente in fieri, di artisti, di critici e curatori, nonché di intellettuali afferenti ad altri ambiti e discipline interessati al confronto con i linguaggi dell’arte, adottando una prospettiva globale, ma prestando la massima attenzione anche al territorio. Prima ancora che area espositiva, funzione che pure gli è assolutamente propria, esso va dunque inteso come un cantiere in cui soggettività differenti per formazione e vocazione concorrono nell'articolazione di un discorso sempre suscettibile di nuovi apporti e sconfinamenti, ma anche costantemente fedele a due linee-guida ben definite. Esse sono sintetizzabili nei termini di un’arte come esercizio di strenua messa in questione della sua stessa natura, nonché come pratica votata al continuo confronto con la dimensione socio-politica, il che, allo stato attuale, si traduce inevitabilmente nell'intreccio con i nodi costituiti dai molteplici volti - economico, ecologico, politico, sociale - della crisi mondiale in corso, che è in definitiva crisi irreversibile dei paradigmi sui quali da oltre due secoli si fonda la civiltà occidentale.


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COMINCIA ADESSO BLOG", 29 giugno 2010 (STEFANO TACCONE)
[Arte e Camorra - Prima e dopo Gomorra] Questi ultimi cinque-sei anni sono indubbiamente caratterizzati da una crescente attenzione nei confronti del fenomeno camorristico all’interno in primis della stessa Campania, ma anche, e soprattutto, a livello italiano ed estero. Il simbolo indiscutibile di questa stagione, quasi un pleonasmo scriverlo, è il giovane scrittore Roberto Saviano con il suo bestsellerGomorra (2006), che, a prescindere da come lo si giudichi sul piano letterario e/o su quello dell’impegno civile, costituisce, non solo e non tanto in sé, bensì insieme alle vicende del suo autore ed a tutto il contorno di discussioni che suscita fin dai primi mesi della sua pubblicazione (e ancora continua più che mai a suscitare) un caso di estremo interesse per chiunque voglia riflettere sull’odierna società italiana. Appena un gradino al di sotto, quanto a grado di rappresentatività di tale temperie e rilevanza socio-politica, si colloca il film omonimo di Matteo Garrone, premiato, tra l’altro, a Cannes, che dal libro di Saviano è appunto tratto. Difficile, come spesso accade, stabilire quanto Saviano e Gomorra siano il prodotto di un certo clima culturale e quanto, invece, abbiano contribuito ad istituirlo. Quello che però appare curioso osservare è che, nel momento in cui la questione criminale campana raggiunge una auge mediatica senza precedenti, scardinando in tal modo (o almeno dando l’idea di scardinare) quell’alone di omertà che da sempre permea di sé la malavita organizzata, non solo, in maniera non infondata, si pone il dubbio sull’efficacia di tale situazione, ma persino, in maniera altrettanto seriamente argomentata, si paventa che tutto ciò possa risultare nei fatti nocivo alla causa del bene comune. Senza necessariamente voler condividere tutte le tesi del sociologo della cultura Alessandro Dal Lago, al cui recentissimo Eroi di carta, energica decostruzione dei “meccanismi che hanno fatto di Gomorra uno straordinario successo editoriale e del suo autore un esempio di eroismo civico”, mi sto riferendo (come qualcuno avrà già intuito), credo che la lettura di questo controverso pamphlet possa aiutarci a non perdere di vista un concetto fondamentale: «Le mafie hanno un enorme potere (…) Ma non sono il potere» e pertanto esse (e tanto meno i soli casalesi) non costituiscono “il male assoluto”, come ahimé troppo spesso tra le righe o anche in maniera più diretta Saviano di fatto argomenta, ma vanno inserite in un contesto in cui «ci sono gli operai che bruciano negli altiforni, e intanto il governo annacqua le sanzioni alle imprese. Ci sono i migranti che annegano a centinaia davanti a Lampedusa e quelli schiantati nei campi, mentre da tutte le parti si grida agli zingari ladri e ai rumeni stupratori. Ci sono milioni di persone che perdono il lavoro e tirano la cinghia, mentre i ministri si sciacquano la bocca con l’economia sociale di mercato». (A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, manifestolibri, Roma, pp. 99-100; p. 11). C’è un sistema, quello capitalista, aggiungo insomma io portando il discorso su di un piano di maggiore astrazione (e forse anche su di un piano di maggiore radicalismo), ove, parafrasando Pasolini, la giustizia non coincide in nessun modo con la legalità. Venendo dunque a riflettere in maniera tanto urgente quanto pionieristica su quale sia lo specifico contributo delle arti visive alla “stagione di Gomorra”, collocando però l’aprirsi di tale periodo circa un paio di anni prima dell’uscita effettiva del libro, facendolo convenzionalmente coincidere piuttosto con l’inizio della Faida di Scampia (ottobre 2004), terrò dunque pienamente conto del discrimine esistente tra uno sguardo sostanzialmente limitato alla dimensione più convenzionale ed epidermica del fenomeno ed uno sguardo che tenta di inquadrarlo in un discorso più ampio, cercando, esattamente come la migliore arte politicamente impegnata più e meno recente, di portare alla luce le trame sotterranee. Si tratterà di una breve carrellata che comunque non avrà pretese di completezza, ma vorrà essere un primo passo in vista della storicizzazione di una tendenza dell’arte campana recente per la quale, essendo essa ancora in pieno svolgimento, si possono necessariamente fino ad un certo punto spendere parole definitive. Fin dall’inizio del 2005 nasce, su iniziativa del “Corriere del Mezzogiorno”, l’ "Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità", sorta di laboratorio in cui «si osserva il fenomeno camorra dai più diversi punti di vista, si costruiscono modelli di interpretazione e di conoscenza, si sperimentano percorsi di sensibilizzazione e di coinvolgimento di pezzi significativi della società, a cominciare dai giovani e dalle scuole, si promuovono iniziative di mobilitazione dell’opinione pubblica», che negli anni coinvolge praticamente tutti gli artisti campani, di varie generazioni e dalle poetiche più disparate, al fine di accompagnare i contributi scritti con disegni a colori. Il limite dell’operazione (non parlo ovviamente dell’Osservatorio in generale, sul quale non mi compete alcun giudizio, ma della modalità di coinvolgimento degli artisti) non risiede ovviamente nella richiesta di accordare la propria creatività agli spazi ed ai mezzi predeterminati dal foglio del quotidiano, ché anzi per alcuni può risultare persino uno stimolo ulteriore, ma dall’idea di fondo che l’affrontare certi temi si possa conciliare con la poetica di ogni artista e non richieda particolari inclinazioni e predisposizioni che magari alcuni possono avere ed altri meno. Un rischio in cui pure talvolta incorre, benché in maniera assai minore, la collettiva Camorra, a cura di Antonio Manfredi, inauguratasi presso il sempre stimolante museo CAM di Casoria (lo stesso titolo intende rimandare con un gioco di parole al nome del museo) nel giugno del 2008, allorché l’emergenza rifiuti ha toccato il suo acme ed il neoeletto presidente del Consiglio, avendo promesso l’imminente “miracolo” della sparizione dei rifiuti, ha già militarizzato l’area della discarica di Chiaiano. Le opere appaiono per molti versi eterogenee (diversi media, diversa età degli artisti, diverso grado di pregnanza ed interesse, diversi gradi di allusione esplicita), ma il punto debole risiede piuttosto nel discorso con il quale si tenta di trovare un filo conduttore. Passaggi come «il controllo sulla vita, sui movimenti e sulla libertà dell’individuo da parte di una creatura dalle cui fauci sembra impossibile sfuggire» o «E chi meglio di un museo di frontiera, come il CAM, poteva concertare una mostra sulle accezioni sociali della malavitosa piovra che attanaglia gli uomini?» si iscrivono pienamente in quel filone retorico che intende tacitamente la dimensione camorristica più come un qualcosa di estraneo al genere umano che come un qualcosa di assolutamente radicato in esso e nella società che si è costruito attorno (e ben al di là della sua accezione letterale). Buona parte degli artisti, di contro, riescono sostanzialmente a schivare tale ottica. Ma gli esempi più interessanti si evincono probabilmente dall’analisi di alcuni singoli artisti che dedicano in questi ultimi anni (e stanno dedicando tutt’ora) un’attenzione più sistematica al tema e/o, più in generale, alla realtà del territorio. Al CAM è presente, tra gli altri, Walter Picardi che solo qualche mese fa (febbraio 2010) inaugura la personale Full Immersion, a cura di Micol Di Veroli, presso la Dora Diamanti di Roma, che in verità, dato anche il contesto, non è possibile leggere in un’accezione esclusivamente campana: essendo Camorra, Mafia, e ‘Ndrangheta intese come «parole diverse per una lingua comune» il riferimento va parimenti a queste ultime due organizzazioni. I parallelepipedi in cemento, benché derivazioni di un immaginario che affonda le radici nel contesto di Ponticelli, quartiere situato nella periferia orientale di Napoli dal quale l’artista proviene, assurgono così ad emblemi di tale koiné del crimine organizzato, inglobando ciascuno di essi un membro di una famiglia tipo: padre, madre, figlio e figlia. Una notevole forza espressiva deriva così dal cortocircuito tra elementi reali sfuggiti alla “cementificazione”, in grado di suggerire precisi quanto assolutamente comuni prototipi umani, e severo impianto stereometrico dei blocchi cementizi, che riduce i personaggi ad una condizione tanto grottesca quanto estremamente drammatica, a figure neomitologiche (mezzi uomini e mezzi parallelepipedi) di una epopea che ha però ben poco di eroico. Benché Walter dichiari di non intendere tale sventurato gruppo come un discorso esclusivamente riconducibile nell’alveo dell’illegale, ma, considerando che si tratta di una famiglia il cui padre ha “cantato”, ovvero, come suggerisce il microfono posto davanti al suo parallelepipedo, “ha parlato troppo” ed avendo in mente l’attuale minaccia della legge-bavaglio, lo riferisca a tutte le situazioni in cui si vuole annichilire la libertà di pensiero, di parola, di azione, in una sola parola l’autodeterminazione, esso non sembra in grado di supportare autonomamente tale ulteriore lettura, che rimane per ora in ombra rispetto a quella specificamente criminale. Allo scadere del 2006 Roxy in the box inaugura presso la galleria di Franco Riccardo la sua prima personale in assoluto a Napoli, Pulp…azioni, ed è probabilmente tale circostanza ad indurla a lanciare una vigorosa quanto spietata denuncia dei molteplici travagli che affliggono la città, ed in particolare al suo volto cruento, che i media, dopo oltre un decennio in cui è prevalsa la retorica del “rinascimento napoletano”, sembrano aver riscoperto. Sono i giorni in cui la stella di Bassolino si va offuscando a vista d’occhio, quando solo un anno prima risplendeva ancora più fulgida che mai, ma non si è ancora eclissata. Di lì a poco il presidente e tutta la sua ultradecennale narrazione finiranno sommersi sotto il peso delle tonnellate dei rifiuti dell’emergenza. Benché l’aura sinistra della Camorra paia aleggiare tra le righe dell’intero percorso, essa non viene mai nominata esplicitamente, intendendo forse Roxy delineare una visione generale ben più sottile della fin troppo vieta quanto inadeguata distinzione tra “bene” e “male”, “buoni” e “cattivi”, ché tali categorie non esistono mai allo stato puro. Il morbo di cui è vittima il popolo napoletano (e magari molte altre realtà italiane e mondiali), sembra dirci, ha senz’altro in buona parte origini di carattere socio-politico, ma esso non è polarizzato in una categoria, in un gruppo, in un clan…, bensì, un po’ come il potere per Michel Foucault, possiede uno statuto fluido e polimorfico. Pienamente consequenziale a tali assunti risulta così il dipinto presentato al Pan nell’ambito del progetto Emergency Room (marzo 2009), Ce l’hanno tutti in bocca, ove sono additati i limiti di ciò che invece solo qualche giorno dopo, per una curiosa coincidenza, Saviano, adoperando parole che, forse inconsapevolmente, sanno non poco di warholismo («Voglio essere un’operazione mediatica, voglio che se ne parli in prima serata») auspica parlando alla trasmissione di Rai Tre Che tempo che fa: che la lotta alla Camorra diventi una “moda”. Chi più di ogni altro artista ha legato ultimamente la sua ricerca alla questione in esame è però probabilmente Rosaria Iazzetta, malgrado ella non solo vi sia approdata seguendo il filo di un progetto dotato di un’ottica più generale, P.N.P.-Progresso Non Pubblicità, ma lo inquadri entro una precisa cornice etico-filosofica che le permette di trascendere certe contingenze. Se il “progresso”, in quanto miglioramento generalizzato delle intere facoltà umane, e lo “sviluppo”, in quanto crescita esclusivamente economica, non solo non coincidono, ma sono persino in contraddizione l’uno con l’altro, l’invenzione tardocapitalista della “pubblicità progresso”, allorché si consideri la pubblicità come detonatore insostituibile del consumo (e dunque, di conseguenza, dello sviluppo), non può che apparire un fastidioso ossimoro. Rosaria si situa appunto nel tratto di intersezione tra questi due termini antitetici, recuperando in pieno la tensione verso il progresso, ma declinandolo secondo una logica completamente ribaltata rispetto a quella della pubblicità. Alla dimensione pubblicitaria contrappone così quella puramente pubblica (manifesti relativi al progetto sono stati per ora installati su edifici pubblici di Ercolano e di Pompei, ma arriveranno presto in altre zone di Napoli e provincia), rendendo esplicito il carattere degenerato proprio della prima rispetto alla seconda. Se il pubblicitario si configura come violenta invasione di messaggi dettati dagli interessi unicamente privati del mittente, ma spacciati come realizzazione dei sogni più profondi del destinatario, il pubblico di Rosaria possiede forse una carica ugualmente violenta, ma finalizzata a veicolare pensieri incitanti costantemente ad un’etica della collettività, ovvero al contrario dell’individualismo accecante in cui l’induzione all’acquisto rinviene la sua inconfessata meta suprema. È innanzi tutto tale détournement di fondo a far sì che, anche laddove il riferimento contenutistico concerne la specifica realtà criminale, il discorso appaia leggibile in antitesi ai soprusi di ogni provenienza, e soprattutto alle insanie che vi sono a monte. La denuncia del potere malavitoso non appare inoltre mai disgiunta dai suoi calorosi inni ad un amore ultraviscerale, iperbolico, senza se e senza ma ed al coraggio intrepido ed alla felicità incontenibile che ne deriva, convinta che solo recuperando le sue più nobili facoltà l’uomo potrà fronteggiare il male che lo opprime. Più “antica” di tutti i lavori fin ora analizzati, nonché, seppure di qualche mese, dello stesso Gomorra, in quanto esposto a febbraio del 2006, mentre il bestseller vede la luce solo in aprile, è però la videoistallazione Noitulover06, di cui si compone la personale omonima presso Villa Letizia a Barra, di Salvatore Manzi (l’ultima personale in cui adopera lo pseudonimo “Zak”), ove la peculiare lateralità dell’ottica di osservazione risiede all’origine della rara acutezza del messaggio. Detournando il motivo ispiratore di una collettiva di tre anni prima (2003),Controlled revolution n.4, a cura di Paolo Emilio Antognoli e Marco Scotini, cui egli stesso partecipa (da qui l’idea di far curare la mostra ad uno “Scotini apocrifo”, Salvatore riferisce il concetto di “rivoluzione controllata”, che per i due curatori toscani riguarda l’inedita ed enigmatica forma «disciplinata, pragmaticamente controllata e burocratica, ma sensazionale», con cui il discorso rivoluzionario sembra tornato in auge (si rammenti che siamo all’inizio del millennio, quando ancora la spinta propulsiva di Seattle e Genova è assolutamente tangibile), alle modalità d’azione tipiche della malavita campana. «La camorra», spiega Salvatore, «costituisce a tutt’oggi l’unica forza rivoluzionaria che agisca dalle nostre parti. La sua prassi appare nei fatti quella maggiormente vincente, quella capace di muovere più denaro e di modificare, nel bene o nel male, l’assetto del territorio. È in grado di rispondere a quel bisogno di rincorrere grandi obiettivi come nessuna istituzione oggi riesce a fare. La prospettiva di conseguire lauti guadagni impiegando tempo e fatica assai ridotti, facendo il palo o vendendo droga, è una tentazione alla quale è difficile resistere per un giovane che, spesso e volentieri, è ancora minorenne». Le due proiezioni gemelle a soffitto, ritraendo ciascuna una telecamera dalle fattezze richiamanti la segnaletica utilizzata in presenza di percorsi videosorvegliati, costituiscono un interessante dispositivo tautologico. Poiché esse, a rigore, non illustrano una telecamera, bensì l’icona alludente al proprio uso specifico, può tranquillamente dirsi che il proiettore, strumento attraverso il quale la funzione della telecamera si esplica, sia qui impiegato ai fini di comunicare tale funzione stessa. Il messaggio trasmesso da tali icone sembra entrare in violento contrasto con la «struggente traccia sonora», un’interpretazione in chiave musicale di un tipico agguato camorristico, composta da Gianni Iannitto, musicista elettronico a quel tempo leader dei Garage Valley, nonché fedele assistente di Zak-Salvatore in numerosi video. Ma come si concilia l’onnipervasività del controllo con il potenziale eversivo che implicherebbe l’operato di ogni criminalità organizzata? La risposta risiede nel fatto che siamo non di meno di fronte ad una “rivoluzione controllata”, anzi è difficile trovarne un’esemplificazione migliore: «Credere che la criminalità organizzata agisca in maniera incontrollata», continua Salvatore, «denota un’analisi alquanto ingenua. Le amministrazioni pubbliche ed i ceti imprenditoriali ne traggono evidentemente un tornaconto. Ecco perché malgrado ci si uccida di fronte alle telecamere non si trova mai un responsabile. La rivoluzione camorristica non è solo una “rivoluzione controllata”, ma si alimenta del controllo stesso e senza il suo appoggio non esisterebbe». 
Alla dimensione occulta, invisibile, persino camaleontica del potere criminale, e, più in generale, di ogni gruppo sociale nell’esercizio del suo dominio, dal momento che «a Scampia, così come nei moderni conflitti mondiali, le popolazioni civili non sono più usate tanto come bersagli inermi, quanto come scudi difensivi appannaggio di pochi» fa riferimento anche Domenico Di Martino con la doppia proiezione Scudi umani(febbraio 2008), il cui titolo concide con la personale inserita nel ciclo Corrispondenze di frontiera da me curato, insieme a Pina Capobianco, appunto presso il Centro Hurtado di Scampia. Partendo da una sorta di icona-segnale prossima alla telecamera di Salvatore, ovvero la sagoma maschile tipica di una toilette o di qualunque altro servizio di uso pubblico, Domenico innesca così un progressivo e costante processo moltiplicativo fino a che il quadro non risulta totalmente riempito da tali prototipi. Alcuni di essi presentano un contorno enigmaticamente lampeggiante, ma l’anomalia va gradualmente scemando fino a scomparire definitivamente. Raggiunta l’acme delle presenze, ha inizio un parallelo e contrario percorso di sparizione, mentre nella proiezione attigua le sagome compiono un giro su se stesse a 360°. La sensazione generale parla di angoscia e straniamento, incrementati dal ticchettio, regolare come un metronomo, che scandisce ogni comparire, scomparire o rivoltarsi delle sagome. È l’inquietudine che comunica, quanto testimonia, la paratassi.


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"LA REPUBBLICA", 29 aprile 2009 - pagina 12 - sezione: NAPOLI (ELDA ORETO) 
[Incontri di frontiera, laboratori e tavole rotonde al Centro Hurtado]
 L' ARTE contemporanea va a Scampia. Continua l' intensa attività del Centro Hurtado (Polo Artigianale, Viale della Resistenza, Scampia) che per il secondo anno consecutivo organizza una serie di mostre e dibattiti. "Incontri di frontiera" è il titolo dell' iniziativa a cura di Stefano Taccone e Pina Capobianco che si affianca a quella precedente di "Corrispondenze di frontiera", in cui otto artisti emergenti campani avevano scelto di lavorare in un territorio non abituato ad accogliere mostre d' arte. Quest' anno è la volta di altri giovani artisti napoletani ma anche provenienti da tutt' Italia, chiamati a intervenire nelle aree circostanti al Centro Hurtado di Scampia (fino a sabato). Insieme alla mostra, oggi e domani alle 18.30, saranno proposte due tavole rotonde per analizzare il concetto di "frontiera". «L' intervento dell' artista - spiega Stefano Taccone, uno dei curatori - non si limita solo ad interpretare il contesto con il linguaggio metaforico dell' arte. Ma "incontra" lo spazio reale della periferia intesa come zona di frontiera». Installazioni, sculture, ma soprattutto performance per cercare di entrare in contatto con il quartiere. Alessandro Ratti ha disseminato di sedie di plastica le strade di Scampia con l' idea di farne dei "propulsori di socialità". Giuditta Nelli ha realizzato insieme ad alcuni bambini del rione delle macchine fotografiche di latta portandoli a fotografare dei "luoghi impossibili"che sono stati poi stampati su t-shirt che hanno indossato durante l' inaugurazione. Anche Katia Alicante ha interagito con i bambini del quartiere, realizzando un sito web di Scampia, per aiutarli a riappropriarsi del proprio territorio. Rosaria Iazzetta e MaraM hanno messo in scena un matrimonio giocando sull' immaginario popolare di questo rito. Maria Vittoria Perrelli ha installato nel cortile del Centro Hurtado due divani, provenienti da un campo Rom, con la registrazione audio della Dichiarazione dei diritti dell' uomo. Rosa Futuro ha presentato un lavoro critico sull' imperante "protagonismo" televisivo. Salvatore Manzi ha realizzato un punto di ascolto, una sorta di confessionale, in cui l' artista ascolta i reclami degli abitanti e propone soluzioni. Ur5o ha svolto una performance contro il materialismo mentre Giacomo Faiella ha srotolato un metro, simbolo del sistema di misure convenzionali, a partire dal Centro fino alla strada.


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"LA REPUBBLICA", 12 novembre 2008 - pagina 13 - sezione: NAPOLI (ELDA ORETO)
[L'artista si converte all' ecologia]

"La donzelletta che vien dalla campagna,/ In sul calar del sole,/ Col suo fascio dell' erba", scriveva Giacomo Leopardi. Anche per lo scrittore del pessimismo cosmico la passeggiata del sabato era un obbligo. Purtroppo nella periferia di Napoli, questo non è possibile. I sobborghi sono lande di cemento dove per fare quattro passi è necessario spostarsi in macchina verso i centri commerciali. Per rivendicare quello che più che un obbligo è un diritto a uno spazio d' aggregazione, sabato alle 18.30, a Casalnuovo, da via Strettola Cupa dei Romani 10/bis, si muoverà un corteo con a capo Salvatore Manzi, giovane artista napoletano, in una performance che per certi versi ci ricorda l' ecologismo di Beuys andandosi a sposare con gli ideali dell' evangelismo popolare. L' evento, a cura di Stefano Taccone, si intitola "è lecito ad un artista passeggiare di sabato?". «L' idea è nata dopo una passeggiata in un campo abbandonato che probabilmente si trasformerà in un altro blocco di cemento», spiega Manzi. «La performance consiste in un giro intorno al perimetro di questo terreno». L' artista, dopo avere lavorato fino al 2005 sotto lo pseudonimo di "Zak", sviluppando un discorso eversivo all' interno del sistema delle gallerie, è rinato come "Salvatore", dopo avere trovato la fede e l' amore. «Mi ispiro alla figura di Gesù nel passo del vangelo di Luca, in cui con i discepoli attraversa il campo di grano nel giorno di sabato, nonostante i rimproveri dei farisei», continua Manzi che nella Bibbia ha ritrovato «il ruolo sociale dell' artista, oggi in crisi. Ormai l' arte è solo un business». E per restituire un valore politico all'arte, Manzi si è allontanato dalle gallerie, promuovendosi come artista indipendente. «è un' esigenza sentita da molti artisti, che stanno cercando di rendersi autonomi - spiega Manzi, che è anche direttore artistico della Phoebus Edizioni, - E per questo ho in programma di fondare un movimento per giovani artisti indipendenti». 


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"EXIBART", 23 ottobre 2007 (MARA DE FALCO)
[Nascondiglio, Salvatore Manzi, Napoli Centro Hurtado]
 Un evento in controtendenza. L’arte migra verso l’estrema periferia partenopea. In un luogo chiamato Scampia. Perché potete toglierci tutto, ma non la speranza... pubblicato lunedì 29 ottobre 2007 Fare arte per produrre. Non denaro, stranamente, ma consapevolezza e speranza. È questo l’encomiabile intento che ha spinto due giovani curatori ad imbracciare armi (ideologiche) e bagagli, e a portare l’arte a Scampia. Un territorio di confine nella periferia settentrionale di Napoli, limen che separa i buoni dai cattivi. Landa di nessuno finita nel calderone dell’incuria politica. Il progetto, intitolato emblematicamente Corrispondenze di Frontiera, prevede un ciclo di otto mostre personali. Gli artisti (Domenico Di Martino, Giacomo Faiella, Rosaria Iazzetta, Salvatore Manzi, MaraM, Mauro Rescigno, Antonello Segretario, Ur5o) invitati a confrontarsi con l’insolita location hanno tutti un curriculum legato all’arte sociale. Ad aprire la rassegna è Salvatore Manzi (Napoli, 1975; vive a Casalnuovo). Noto tempo addietro con lo pseudonimo di Zak, da qualche anno si è riappropriato del suo vero nome. Quel nome che allora gli suonava troppo meridionale, ora è espressione di un’appartenenza da rivendicare. “Poiché -dice l’artista- il mio lavoro non può prescindere dal contesto in cui vivo, anzi ne è espressione”. Strenuo sabotatore del “circuito”, sostenitore di una visione dell’arte “antagonista al sistema”, Manzi propone al Centro Hurtado un’installazione ambientale. Un Nascondiglio, semplice cubo di mattoni grezzamente assemblati, coperto da un tetto di lamiera, che cela al proprio interno un lampadario acceso. Poggiato a terra -di modo che la luminosità resti soffocata- lascia trapelare soltanto un lieve bagliore. Trasposizione tridimensionale di un passo del Vangelo di Luca (quello ufficiale, non apocrifo come i Flash Art che l’artista “in-editò” nel 2001 per la sua mostra alla galleria T293) da cui è scattata la scintilla creativa che ha dato vita all’opera: “Nessuno accende una lampada e poi la copre con un vaso, o la mette sotto il letto; anzi la mette sul candeliere, perché chi entra veda la luce”, recita il versetto. E il seguito, proiettato sulla parete, chiarifica l’intento: “Poiché non c’è nulla di nascosto che non debba manifestarsi, né di segreto che non debba essere conosciuto e venire alla luce”. Messaggio che, sebbene tratto da una fonte sacra, non ha nulla di provvidenziale. Perché è l’individuo, con la propria volontà, a dover emergere dall’ombra. Ognuno deve crearsi la propria “rivoluzione domestica”. Puntando in basso, fissando obiettivi minimi. Per evitare di caricarsi di aspettative irrealizzabili. E, nonostante tutto, si può ancora intravedere una luce, seppure flebile. Magari rossa, come quella che illumina l’ambiente espositivo. Simbolo cromatico di una spiritualità, laicamente intesa, da cui ricavare l’energia del cambiamento. Che forse, cinicamente, non arriverà mai. Perché Scampia potrebbe restare per sempre un nascondiglio. Il luogo in cui occultare ciò che non si deve vedere. Ma intanto è legittimo sperare, almeno per una volta, che qualcuno ci faccia tana.


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"SEGNO", N°216 - Novembre/Dicembre 2007 (STEFANO TACCONE)
[Attività espositive, Speciale Campania]
 Salvatore Manzi (Napoli, 1975), vive e lavora a Casalnuovo di Napoli. A lungo noto con lo pseudonimo "Zak" preposto al cognome, si è imposto, fino al 2002, quale ironico sabotatore delle pratiche ufficiali che governano il sistema dell'arte, promuovendo azioni come quella delle 1200 copie apocrife di Flash Art. In seguito la sua attività si è assestata nella produzione pressocché esclusiva di video e ne legame stabile con una galleria. Avendo abbandonato, ormai da quasi un anno, lo pseudonimo che lo ha reso famoso, Salvatore ha aperto un nuovo capitolo della sua carriera. L'istallazione Nascondiglio, ove la scelta di non realizzare più un video, nonché un'inedita vena mistica si affiancano ad una sempre costante attenzione per le dinamiche di potere e dell'esclusione sociale, racchiude l'essenza di tale svolta.


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Catalogo "HORROR VACUI", 2007 (MARIANNA AGLIOTTONE)
[Work in progress, immagini e punti di fuga dalla vacuità] Immagini, parole, suoni, performance e video, inscenano il loro 'atto unico' dando vita ad un a intensa e lucidissima analisi dell'Horror Vacui. Il cortile e le sale di Palazzo Venezia di San Pietro a Patierno diventano il set per eccellenza; luoghi di narrazione di un arealtà completamente vuota di sostanza ideologica, dove le persone vi transitano ma senza abitarla e dove il senso di indefinito - che ben trasmettono le zone di periferia - si mescolano ad azioni irrazionali, agli sguardi muti e gli ipocriti rituali di presenze anonime e spente. La dimensione dell'arte e della creatività, la coesistenza e l'interazione degli artisti coinvolti diventano dunque un flusso di energia per colmare l'Horror Vacui: Cyop&Kaf, Giuseppe Fontanella, Donatella Guarino e Salvatore Manzi, presentano un'opera unica per esprimere con linguaggi diversi riflessioni comuni; mettono a fuoco l'incertezza e la condizione di vacuità sociale, esistenziale, che caratterizza l'epoca attuale in tutti i suoi ambiti e che oggi, sempre di più, si identifica con quella istituzionale. Ponendosi da qualche parte tra il realismo e il surrealismo, confermando un impianto visivo come sempre rigorosissimo, la proiezione di Salvatore Manzi è l'emblema della condizione dell'essere umano inserito in un ambiente e in un ruolo connotati da mancanza di energia e di operosità. Il loop trasmette l'immagine di un individuo anonimo (lo stesso artista) ripreso nella classica posizione del bravo impiegatino seduto e inerte;mettendone in evidenza l'assenza di ideali l'inquietante e cinica abulia, e suggerendo come quest'ultima sia il sine qua non per lo svolgimento del lavoro. Pur essendo muto, il video mira ad una presa di coscienza mnemonica e fantastica, acustica non meno che visiva, del luogo e delle persone che l'affollano. E il suono, del resto, è il complice di queste effigi oscillanti tra immaginazione e realtà: Giuseppe Fontanella ne ricorda il calpestio dei passi, il rumore degli oggetti, il passaggio della folla nelle stanze; presentandone le traiettorie e le nevrosi. È come se gli artisti volessero restituire l'atmosfera di uei luoghi o la sensazione data loro, più che la dimensione formale e materiale: l'incertezza, la mancanza di riferimenti, il senso di smarrimento e di distacco dallo spazio e dal tempo reale, che si insinuano nel vivere sociale e che determinano la frantumazione della personalità. Allora, a ben guardare, il labitinto fluorescente di Donatella Guarino - così come il cerchio specchiante di Cyop&Kaf - possono diventare il punto per osservare se stessi, il percorso per giungere (dopo lunghi giri) alla parte più interna e vitale della persona umana. senza aver paura di districarsi da quella vacuità di valori, da quella sorta di nichilismo passivo cui l'opera rimanda.


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"Catalogo Premio Mario Razzano" 3° edizione, 14 ottobre 2006 (SIMONA CRESCI)
[NOITULOVER06, Premio Mario Razzano, Benevento]
 Attraverso una serie di performance che lo vedono protagonista assoluto di azioni di denuncia a favore dei diritti umani, Zak Manzi si è sempre distinto per la sua volontà di confrontarsi continuamente con le contraddizioni della società contemporanea. Ed è grazie al ruolo di artista, contraddistinto da un intelligente senso critico e una spiccata ironia, che indaga verso la complessità di quella difficile realtà continuamente emarginata, alla quale vuole restituire la dovuta dignità. Attraverso le sue opere lo spettatore diviene il protagonista principale di un lavoro fondato sulla vita.


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Testo in catalogo di Laura Carcano in occasione della personale di Zak Manzi  BURN OUT presso la Galleria Umberto di Marino Arte Contemporanea inaugurata il 15 dicembre 2005. 
Burn Out è un sistema a circuito chiuso. Lo è l’impianto di telecamere installato nella clinica così come lo sono i percorsi ciclici e i pensieri ossessivi degli infermieri. La sequenza è un’estenuante esperienza di voyeurismo alla quale pare impossibile mettere fine. ... l'abbiamo osservata, lei forse non sa che ogni sua azione viene monitorata, registrata... Gli operatori in camice bianco seguono ciascuno le proprie linee invisibili in una stremante coercizione a ripetere. I movimenti sembrano disegnare, ridisegnare, ricalcare ancora e ancora la trama di una patologia che ne ha compromesso irrimediabilmente la professionalità. ... abbiamo valutato che la sua condizione psicofisica non le consente di fornire un sereno ed efficace servizio...
Tutto è abbagliante nel suo candore chirurgico e asettico, non c’è nulla a distrubare questa eco visiva. Si direbbe lo spazio sia stato in qualche modo sterilizzato per isolare il Burnout (o sindrome da stress lavorativo), non ci sono nemmeno i pazienti a intralciare i segreti percorsi di follia del personale ...ho prenotato per lei una visita di controllo, ci atterremo alle indicazioni che ci daranno, le auguro buon lavoro...
L’arte, da sempre tacciata di comportamenti devianti, viene da sè, quando si occupa di malattia mentale ci affonda a piene mani e, si potrebbe dire, con una certa competenza. 
Un riferimento immediato va all’assurda clinica fasulla immaginata da Rebecca Horn nel suo Buster’s Bedroom nella quale medici e ospiti si confondono i ruoli e alla composizione claustrofobica di La ronda dei carcerati di Van Gogh. 
Zak Manzi registra la performance a porte chiuse nella stessa galleria e proietta il video nella sola parete rimasta nascosta all’obbiettivo. In questo modo innesca, secondo un principio di realtà, una relazione con il pubblico che si riconosce come parte della struttura. L’andirivieni malato degli infermieri viene così ripercorso, in un modo o nell’altro, dal visitatore. Questi si troverà nella suggestione di essere come esposto all’occhio di una telecamera che ne osserva e giudica le azioni. ... mi sono accorto che lei ha paura, mostra dei chiari segni di paura, lei ha decisamente paura, lei non si accorge di aver paura...
Zak Manzi sistema quindi il suo lavoro sul fronte più scomodo, attivando un fastidioso cortocircuito visivo tra chi guarda e chi viene guardato, tra ciò che deve essere omesso e ciò che vuole essere esibito.ai clic qui per effettuare modifiche. (Laura Carcano)


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"LA REPUBBLICA", 17 settembre 2005 - pagina 12 - sezione: NAPOLI (STELLA CERVASIO)
[Il Castello della Passione]
Dall'esegesi della parmigiana di zucchine a una "pelle di Marsia" di design simil-Kapoor che trasferisce in salotto i fasti di piazza Plebiscito. Dal plastico di Gaudì formato casa di bambola (nella foto accanto), al "caravaggesco" light box con la cover girl sfregiata. Varia e vasta la creatività degli under 30 dal bacino del Mediterraneo tutto, che si fa rappresentare dalla dodicesima edizione della Biennale dei Giovani Artisti. Da lunedì fino al 15 ottobre la grande festa libera e forse lievemente fricchettona (in questo senso un po' dejà vu) invaderà pacificamente Castel Sant' Elmo creando una vera migrazione sulla collina di San Martino. Settecento giovani artisti divisi in sette sezioni: arti visive, applicate, musica, spettacolo dal vivo, cinema e video, letteratura e poesia e gastronomia hanno dato il meglio di sé e si faranno scoprire come un universo sconosciuto dai media che per abitudine riservano i titoli a nove colonne solo alle celebrità. Il tema, generalista come si conviene, è "la passione", ma in fondo è scontato. Che cos' altro, da queste parti, ricompensa l' inventiva dei giovani creativi, se non il brivido della passione? L' inaugurazione lunedì alle 18.30 (l' ingresso è gratuito); ieri la presentazione con il soprintendente Spinosa, "padrone di casa" del castello, gli assessori Di Lello, Cortese, Furfaro, Eduardo Cicelyn che con Achille Bonito Oliva cura la parte "scientifica" della rassegna. Del critico salernitano la grande idea che ha portato Napoli a stagliarsi nettamente più in alto sulle altre bandiere che partecipano. Quella cioè di istituire una commissione di selezionatori per ciascuna disciplina. Si entra subito nel regno di Gigiotto Del Vecchio, che di giovani creativi si occupa da tempo onorando il titolo di questa Biennale. Si distingue anche l' allestimento, nei tre ambienti affidatigli, essenziale ed efficace quando fa svettare "La guglia" di Marco Abbamondi, che proviene dall' arte presepiale, ma la idealizza con un mondo in miniatura fantastico e inquietante. Il curatore Del Vecchio allinea poi in un album-bacheca le foto di Eugenio Tibaldi, che nella sequenza di "Economia della passione" si rifornisce di scatti di un matrimonio presso la fiorente impresa di un fotografo di nozze, de-personalizzando sposi e invitati con pecette sugli occhi. Come Tibaldi, hanno già esordito in gallerie anche Moio & Sivelli, che con il video "Whatever you like" sondano all' inglese le reazioni del pubblico alla provocazione di una performer che offre loro dei babà. Più stucchevoli di certo di un saggio di pittura che non aveva neppure bisogno dell' altarino con ceri che lo ospita in cima a una scaletta: Giovanni D' Onofrio (un nome di cui si potrebbe sentir parlare anche dopo la Biennale), pur creando un certo riferimento all' iconografia classica con la sua "Annunciazione", la modernizza con una impaginazione violenta e scura, e la rende ambigua fino a stravolgerla: emblema della sacra femminilità diventa una figura più simile a una rockstar, tra l' immortale Morrison e l' eternauta Jagger. Tra i napoletani si può scegliere tra le certezze di Carlotta Sennato, che nella sua installazione a parete sposa un tutù all' anta di un armadio polveroso, citando Dubuffet; gli interventi al computer di Senseria ("Sinestesia urbana"), e il misticismo di Rosaria Iazzetta, la quale, dopo nove anni di vita in Giappone, inchioda a una metaforica croce un homeless di Tokyo: la morte della passione. C' è anche una Barbie che tira le cuoia, pochi passi più in là, in un "fotoromanzo" di Michele Letizia, mentre Barbara La Ragione, che nella sequenza fotografica "C' era una volta: Biancanera" riscrive una favola crudele alla Angela Carter. Ma non sono da meno i selezionati delle altre sezioni. Le Afterfour, a metà tra musica e arte. Il Damm (protagonista anche di una installazione luminosa dell' artista veneziano Giorgio Andreotta). Salvatore Zak Manzi, che ha prodotto un breve cartone intitolato "Tg War" condotto da un catastrofico quanto mai Emilio Fede. A Tatafiore è piaciuto il progetto di utilizzo delle cavità sotterranee dei Vergini di Valentina Gurgo. Al neapolitan chef Avallone, che trova ben riuscita la performance gastronomica del concorrente bosniaco, dà dieci in pagella al "più studioso": Filippo Di Maio, che da Meta di Sorrento ha ricostruito la storia della parmigiana di zucchine, collocandola in un gotha di pietanze ideali. Si potrà assaggiare? Chissà. Un' altra delle sorprese di quel grumo di tufo in cui Napoli si arrocca: Castel Sant' Elmo, aperto, come in una vera megalopoli, fino a notte inoltrata. 


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“FLASH ART” n°247 agosto- settembre 2004 (SIMONA BARUCCO)
[Speciale Napoli, Agli albori del 2000] Zak Manzi opera soprattutto con il video. Attraverso piccoli spot, egli porta alla ribalta la condizione degli uomini sotto ogni latitudine.
La guerra, la carestia o la povertà, lo sfruttamento minorile e la violenza in ogni variante, sono le tematiche su cui costruisce immagini ironiche e crudeli. Le sue opere sono l’altra faccia della medaglia mediatica: parodie tra il serio e il faceto, di editoria, televisione, cinema ecc.  Manzi si concentra su temi come guerra, debito dei paesi del terzo mondo, abbandono degli anziani, colpendoci con immagini durissime e sgradevolmente ironiche. Pittura, video, disegno e fotografia muovono l’universo dell’espressività dell’artista come urla soffocanti e ammutolite dall'indifferenza alle quali diamo noi il volto della vergogna.


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"EXIBART", 20 giugno 2003 (MASSIMILIANO TONELLI)
[Giallo a Praga. Scompare un artista]

Manco è cominciata e già strisciano le prime polemiche. Alla Biennale di Praga è scomparso un partecipante. L’artista partenopeo Zak Manzi, con un passato di trickster burlone e contestatore dell’arte, si è visto rifiutare la presenza in mostra dopo aver già inviato i lavori nella capitale ceca. Exibart l’ha intervistato per capire cosa è successo…

(MT) Zak, cosa succede? Non mi avevi detto di aver smesso con i sabotaggi artistici, le mostre false e tutto il resto? (ZM) Si, certo che ho smesso. Già da un anno. Perché? (MT) Allora come mai non ti vedo tra gli artisti che parteciperanno alla Biennale di Praga? Tempo fa mi avevi annunciato una tua presenza in questa mostra! (ZM) L’associazione culturale "Prometeo" di Lucca qualche mese fa mi ha prodotto il progetto "war-mup", succes-sivamente alla realizzazione il materiale è stato presentato a Marco Scotini, uno dei curatori della Biennale di Praga. Le opere (mille disegni accompagnati da un video) hanno conquistato Scotini convincendolo della mia partecipazione alla Biennale di Praga nella sezione "Beautiful Banner" da lui curata. (MT) E allora cosa non è andato? L’opera che presentavi aveva un contenuto particolare? (ZM) L’opera è da considerarsi sicuramente rischiosa dal punto di vista legale, i mille disegni riprendono immagini tratte da un programma militare trafugato, in cui sono annoverate tutte le armi (munizioni, mine, etc.) utilizzate negli ultimi conflitti. Il video anima i mille disegni in negativo simulando graficamente il programma originale. Risulta particolarmente toccante il video, grazie anche ad una suggestivo intervento sonoro dei "24 grana" pensato appositamente per l’opera. La prima cosa a cui ho pensato quando ho saputo della mia esclusione dalla biennale è stato al falso "flash art" (in una mostra di qualche anno fa Zak aveva esposto a Napoli delle pile di FlashArt perfettamente falsificati), ho pensato ad un pregiudizio nei miei confronti verso un tipo di lavoro che mi ha caratterizzato per anni, successivamente ho riflettuto sui contenuti di "war-mup". Probabilmente il direttore della Biennale di Praga, Giancarlo Politi, non ha intenzione di proporre un progetto palesemente anti militare. In realtà non conosco attualmente il reale motivo dal momento che tuttora non mi è stata data spiegazione circa la mia esclusione. (MT) Chi ti ha comunicato la tua esclusione dalla Biennale di Praga? (ZM) Mi hanno chiamato Claudio ed Ida Poleschi. (MT) E non sei riuscito a contattare gli organizzatori per farti dare almeno una spiegazione? (ZM) Non sono riuscito a contattare il direttore, il curatore Marco Scotini è stato molto gentile con me, l’esclusione è partita dall’alto e il suo apprezzamento al mio progetto è indiscusso, mi è sembrato mortificato. Ciò che mi rimane di questa Biennale sono le e-mail tra me e il curatore, circa il materiale (foto e testi) da spedire per il catalogo. Attualmente i miei lavori sono a Praga, tutto questo è o non è assurdo? (MT) Bhe tutto sommato potrebbe trattarsi di una tua mostra di qualche anno fa. Annunciata e poi inesistente. Ti consola un po’? (ZM) Sì, potrebbe essere, è una combinazione curiosa, ma si è trattato indub-biamente di una discriminazione e non di una mia scelta, mi auguro che questa piccola intervista dia coraggio ai tanti artisti (spesso poveri) che non hanno voglia di stare zitti.


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"CARTA", marzo 2003 (PABLO ECHAURREN)
[Manzi rossi, Impala l'arte, Per una riscossa partigiana, di Pablo Echaurren. Prefazione di Marco Philopat, Edizioni Intra Moenia] Bazzicando l'ambiente dell'arte si trova di tutto, Bella Gente che appone la propria sigla ai cessi e poi quelli diventano pezzi da museo (Marcel Duchamp), Tizi che inscatolano la propria merda non proprio odorosa di rosa fresca e aulentissima (Piero Manzoni), Cai che vendono lo spazio vuoto e rilasciano regolare ricevuta di pagamento e quella ricevuta vale oro (Yves Klein), Semproni che si affettano il pisello (Rudolf Schwarzkogler), Squinzi che si appendono al soffitto con ami da tonni (Stelarc), Guaglioni che si fanno prendere a calci nei coglioni dai loro assistenti violenti (Franko B). Ma due elementi come quelli di cui vi sto per parlare non li avevo proprio nemmanco immaginati. Il primo è Angelo Rossi che il giorno fatidico del 24 luglio 1999 (un colpo di sole? una folgorazione? una caduta dal seggiolone?) decide di rinunciare al proprio nome, all'aura autorale, al feticcio del "questo l'ho fatto io!", al ricatto dell'ego sesquipedale dell'artista che è sempre il primo della lista. Decide così e cosà di entrare in una sorta di clandestinità creativa e affida tutta la sua opera successiva alla firma di un concettuale neapolitano, tale Zak Manzi, il quale da parte sua sceglie di non fare nella vita nulla se non firmare quadri, operazioni, elaborazioni, altrui, insomma un autentico sfaticato o un filosofo dell'ozio, a seconda di come la si pensi sull'argomento. Angelo Rossi è invece una specie di San Francesco che si libera dei soldi, dei vestiti, dei legami terreni, e si avvia sul sentiero della beatitudine, con la differenza che egli, Angelo, si spoglia dei diritti d'autore, dell'identità, della visibilità e avvia un percorso di distaccata contemplazione delle reazioni che le sue opere (o meglio dire quelle di Zak Manzi) producono sul pubblico, sui galleristi, sui critici, sui collezionisti, sui maniaci dell'autenticato. Piacciono, non piacciono, non destano interesse, raccolgono una messe di approvazioni? Sono problemi di Zak. Annullarsi è un modo laterale e sfuggente, ma anche tagliente, di confrontarsi e sottrarsi, come di chi possa spiare il proprio funerale e ascoltare i commenti, accertarsi delle ipocrisie, verificare la idiosincrasie, tastare l'effetto che fa. D'altronde certi suoi lavori sono già di per se un occultamento, visto che dopo essere terminati vengono coperti, sigillati per non essere osservati da anima viva se non dopo un certo prestabilito lasso di tempo che può andare da un anno all'eternità. Ma in fondo gran parte dell'arte egizia, etrusca e compagnia bella era fatta proprio per essere tombata, per non venire fruita dai viventi, per restare celata o rimandata a un futuro blindato. Almeno fino al momento dell'ingresso dei predatori, degli archeologi, dei moderni visitatori di tesori destinati per volontà dei loro creatori a essere goduti solo dai morti e dagli dei. Un aspetto notevole della sua produzione recente (rigorosamente siglata Manzi) è la pubblicazione di due famose testate, due riviste ultra affermate, perfettamente contraffatte, imitate fin nei minimi particolari, ovviamente accuratamente cellofanate per non essere sfogliate, "Flash Art" e "La Settimana Enigmistica" il cui slogan è sempre stato quello di vantare non so quante centinaia di imitazioni, ora ce ,'è una che è più reale dell'originale, nel senso che è un enigma allo stato puro, un rebus, un busillis, un cruciverba volant, un puzzle di presenze-assenze. Devo confessare un peccato capitale, che io le mie copie le ho aperte, ho violato tutti i patti, le promesse, i giramenti, ho infranto la superba legge del fesso chi legge, non ho resistito alla tentazione di ficcarci il naso. Due oggetti di culto per chi insegue la via del camuffamento, del detournamento, del plagiarismo, del mimetismo, dello spostamento di senso. Ultime notizie: Zak Manzi si è dimesso anche da se stesso, è uscito dal circuito, ha abbandonato il campo, ha mollato la pugna, ha maturato la definitiva ripugna, insomma per farla breve s'è scocciato pure di firmare. Ora starà solo a guardare. Gli altri, quelli che ancora ci credono.


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"EXIBART", 6 giugno 2003 (VALERIA CINO)
[Born Out, Giugliano (NA) Umberto di Marino]
Ci si domanda spesso quale sia l’estetica della giovane arte. Quali parole, pensieri urgenti e diversi debbano esprimere. Manzi, Del Vecchio, Rauso e Tibaldi raccontano con immagini accattivanti, divertenti, segni sottili e ottimo profumo, zone limite del nostro sguardo…

Born Out è il titolo della mostra: fuori, al di là, alla ricerca di una consapevolezza nuova che non faccia muro contro muro con la realtà. Il lavoro di questi artisti, nonostante sia in alcuni casi fortemente politico, non cerca uno scontro, si inserisce nel quotidiano senza far troppo rumore. Zak Manzi, “dimessosi” ormai dal ruolo di artista eversivo, che si opponeva al sistema negando a quest’ultimo le proprie parole, ha scelto di parlare con la propria voce e i suoi contenuti risultano tanto più urgenti quanto più semplici ed evidenti. Presenta un tg-cartoon con un personaggio animato che fa il verso ad Emilio Fede, alla comunicazione in tempo reale, al meccanismo per cui un’informazione succede ad un’altra sempre più importante, più urgente, in una perdita di senso delle parole. E fa il verso in fondo alla realtà stessa. Il nostro sorriso, quando alla fine il giornalista si fa saltare in aria come un kamikaze, è in realtà un ghigno perché la verità ci appare così tragicamente ironica! Cristina Rauso immagina, invece, di profumare di hairwick le stanze degli ospedali e associa un senso di piacere ad una condizione di precarietà fisica e psicologica. Le sue immagini dai toni pastello sono delicate. Ci invita: “Close your eyes”, “You decide where to be”…sembrano le parole di uno spot pubblicitario e ci convince quasi a rilassarci; ci guardiamo intorno e siamo in un ospedale così ritorniamo immediatamente impazienti.
Federico Del Vecchio disegna linee leggere e sembra capovolgere il flusso naturale negli alberi a testa in giù che passano oltre e attraversano tavoli, che generano antenne, in una continua confusione di stati. Ma tutto ha un tono silente, accordato sulla stessa nota bassa e continua: una goccia che scava la roccia. Eugenio Tibaldi cancella quasi a colpi di bianchetto, e ridisegna quegli spazi lontani che le immagini, i messaggi e gli oggetti invadono quotidianamente sotto i nostri occhi. Eugenio ficca la sua bandiera bianca e conquista la sua periferia. Risultato è uno spazio affascinante, metafisico, in cui si perdono i riferimenti spaziali e si naviga tra bidoni, copertoni e segnali. Un’arte impegnata. Ma diversa rispetto a quella dei maestri Hans Haacke, Barbara Kruger o Martha Rosler. Lo stesso intento moralizzatore appare profondamente lontano rispetto a questi giovani. E’ come se, non potendo opporsi al sistema e cambiarlo, l’abbiano ingoiato. E sembra che si sia capovolto di nuovo quel piano dell’immagine che nel 1968, con grande intuizione, Steinberg definì non più verticale, ma orizzontale; nasceva in quegli anni un nuovo approccio psichico all’immagine, non più di confronto, ma di partecipazione. E l’arte determinò questo cambiamento, entrando nella vita come un piano che l’attraversa. Oggi torna a stabilirsi di fronte a noi in ragione, probabilmente, di una esperienza visiva ancora cambiata rispetto ad allora: la sua velocità, il suo essere effimero provoca astensione, un naturale desiderio di “stare a guardare” e anche l’arte smette di occupare, scontrarsi e ferire e adotta il linguaggio “politico”.


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"EXIBART", 12 aprile 2002 (STEFANO VERRI)
[exibinterviste - La giovane arte - Zak Manzi] 
Un artista che ha fatto del plagio esplicito e legittimato l’essenza della sua ricerca artistica. Un artista inesistente che si fa beffe dell’intero sistema ufficiale ed autorizzato. Questa settimana Exibinterviste presenta Zak Manzi, in tutta la sua graffiante autoironia...

(SV) Il tuo lavoro consiste nel fare arte senza fare assolutamente nulla, nell’essere artista senza essere creatore, consiste nell'appropriarti di opere altrui apponendovi la tua firma, rendendole tue. Questo è sicuramente un atto critico nei confronti del mondo dell’arte…cosa ti spinge ad operare questo tipo di ricerca e cosa ti aspetti agendo in questo modo dal pubblico e dalla critica? (ZM) Più che atto critico, penso si tratti di consapevolezza. L’arte è un ottimo altoparlante, ti permette di parlare a chi ha potere. La creazione e l’inutilità camminano insieme, è un problema di comprensione. La mia firma si pone come scambio, non sento veramente mie le cose che firmo, cerco solo di comprenderle. Il pubblico e la critica non si aspettano nulla, proprio quello che mi aspettavo. (SV) Hai recentemente “esposto” alla galleria Franco Marconi di Cupramarittima (ap), dove hai firmato un catalogo che rivisita La Settimana Enigmistica. Indubbiamente il lavoro concettuale è molto simile a quello di Flash Art 2000-2001…quali sono le analogie e le differenze? (ZM) Le analogie sono evidenti. Attraverso le differenze tra le due operazioni è possibile comprendere meglio il senso del Flash Art. Credo sia più giusto inoltrare questa domanda ad Angelo Rossi, è lui la mente delle due sculture. (SV) Qual è il tuo grado di partecipazione nella realizzazione di un’opera? (ZM) Variabile e casuale, come potrebbe essere quella di chiunque incontri un artista durante la creazione. (SV) Cosa pensi della tua arte? Dove può arrivare? (ZM) La satira spesso incarna dei personaggi per ridicolizzarli, faccio l’artista per prendere in giro la mia identità. Mi sono accorto che l’identità nei paesi ricchi è uno strumento indispensabile per affermare dei modelli, ti permette di appropriarti delle cose, dei diritti, proprio come faccio io. Sono un artista senza opere, senza poetica, senza concetti, senza significati, inganno e persuado il pubblico. Zak Manzi è una riflessione sull'arroganza del potere. (SV) Questi ultimi dieci anni sono stati determinanti per lo sviluppo della giovane arte italiana. Anni di forte fermento, di nuove proposte e ricerche e, soprattutto, una rinnovata attenzione da parte della critica ma anche delle istituzioni. In questo nuovo scenario, anche il ruolo dell’artista sembra essere mutato, conquistando via via un’autonomia ed una consapevolezza sempre maggiori. In questo momento, a tuo parere, cosa si chiede ad un artista per emergere, per imporsi? (ZM) La certezza di essere un critico. La certezza di essere un gallerista. La certezza di essere un giornalista. La certezza di essere un’istituzione… L’artista non doveva smettere di fare l’artista? (SV) A cosa stai lavorando attualmente e quali sono i tuoi impegni per il prossimo futuro? (ZM) Io non lavoro, ma sto pensando che potrei farlo, firmando, di conseguenza, una mia opera. Sarebbe un gesto irriverente nei miei confronti. 


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"EXIBART", 28 febbraio 2002 (STEFANO VERRI)
[Zak Manzi - Angelo Rossi, Lisa Holden, Cecile Dahl. Cupramarittima (AP) Galleria Franco Marconi]

I pesci abboccano se non amano, un piccolo rebus, che diventa il titolo per il nuovo ciclo di mostre proposto dal gallerista Franco Marconi, affidato nella curatela al giovanissimo ma esperto Mauro Bianchini...

Zak Manzi è il protagonista del primo appuntamento della rassegna che, attraverso il suo concettualismo iperbolico ed ironico, crea un corto circuito spiazzante tra pubblico, critica ed artisti. rightÈ una ricerca particolarissima quella che caratterizza il suo viaggio nell’arte contemporanea traendo infatti ispirazione dalle poetiche dadaiste, in cui si rimetteva in discussione il ruolo dell’opera d’arte. Egli, con un processo analogo, rimette in discussione il ruolo dell’artista come creatore innescando una serie di reazioni spiazzanti volte all’autodistruzione del concetto stesso di arte. Questo avviene nel momento in cui consideriamo un’opera, qualsiasi essa sia, come effetto fenomenico dell’intelletto e del pensiero di un creatore e quindi inscindibile dal valore concettuale e filosofico che questi le attribuisce; ed è in questo particolare rapporto tra creatore e opera che si inserisce il genio malizioso di Zak Manzi che, attraverso una serie di “attribuzioni indebite”, si sostituisce al creatore firmando l’opera, non essendo l’artista.
Per questa rassegna “firma” il catalogo che altro non è che la rielaborazione effettuata da Angelo Rossi della settimana enigmistica, uno dei passatempi preferiti dagli italiani che con l’arte, però, c’entra poco o nulla. Una Settimana Enigmistica in tutto e per tutto, con tanto di rebus, parole crociate, indovinelli e sciarade in cui qua e là si inseriscono biografie, testi critici e note tecniche sugli altri artisti presenti in mostra.
L’azione concettuale va oltre il catalogo e si estende a tutta l’esposizione; Zak Manzi infatti appoggiandosi al critico Renato Bianchini, presenta, all’interno della sua “personale”, oltre ad Angelo Rossi e Zak Manzi, altri due interessantissimi artisti. La prima, Lisa Holden, propone una serie di quadri digitali in cui si riscontra la volontà dell’artista di lavorare con e sul proprio corpo. Trasformismo e mutamento sono le parole chiave per capire le sue opere, risultato della stratificazione di immagini diverse, di differenti stati d’animo, nella ricerca di un'unità altrimenti impossibile, dimostrata nella resa grafica stessa del prodotto finito, volutamente imperfetto. Lo stesso tipo di lavoro sul corpo si trova nel video di Cecile Dahl in cui acquista una carica di erotismo e sensualità devastanti. Un video proiettato in loop continuo sulla vetrina della galleria in cui due lingue che si cercano e leccano con una ritmica quasi ossessiva, diventano la rappresentazione tangibile di sensazioni intime e segrete.


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"ARTE", gennaio 2002 (ARGANO BRIGANTE)
[Zak Manzi, scherzi e lazzi a Milano]
 
Eclettico e provocatorio.
Tanto da far andare su tutte le furie alcuni galleristi (come Emi Fontana), che non hanno apprezzato il suo spirito irriverente. 
Il giovane artista Zak Manzi ha esordito con un semplice comunicato stampa, che annunciava una sua mostra proprio da Emi Fontana.
Peccato che fosse...una bufala.


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"EXIBART, 25 luglio 2002 (PAOLA CAPATA)
[By-pass - percorso alternativo - Monteprandone (ap), Palazzo Parissi]
A Monteprandone, piccolo paese arroccato tra i declivi marchigiani, dieci artisti si uniscono per dar vita ad un laboratorio d’arte. Facendosi portavoce dell’evoluzione schizofrenica del vivere contemporaneo…
E come potrebbe essere altrimenti? Mettete dieci artisti, per lo più giovanissimi e quasi emergenti, aggiungete la totale diversità tecnica e concettuale con la quale essi lavorano ed avrete quello che a prima vista potrebbe sembrare un magmatico insieme di personalità, potenti e complesse al tempo stesso, che non hanno nulla a che spartire l’una con l’altra. Sbagliato. Gli artisti scelti dal curatore Stefano Verri sono legati invece a filo doppio da un sottile filrouge, un percorso alternativo che attraversa le coscienze e diventa il by-pass necessario e vitale per la comprensione del mondo. Ognuno di loro tenta, attraverso l’atto artistico e la ricerca che ne è alla base, di rivelare le contraddizioni della società in cui viviamo, o più semplicemente di coglierne gli aspetti sottili, nascosti e quasi dimenticati nella velocità dei ritmi quotidiani. Per questi motivi il cubo dei mille Flash Art falsi di Zak Manzi-Angelo Rossi, ridicolizzazione del sistema artistico e della sua pretesa d’infallibilità, si sposa così bene con il Genetics di Caterina Notte, simbolo dell’avatar , del doppio virtuale, la cui presenza attrae e destabilizza al tempo stesso. Così come l’installazione Metastasi di Filippo Sorcinelli, (uno dei lavori più complessi della mostra) è denuncia e condanna del potere religioso ed insieme speranza di riscatto dalla sua corruzione; le opere di Giuseppe Restano sono dei banali oggetti sottratti a forza dal nostro spazio domestico e riconsegnati sotto forma di oli dalle tinte calibratissime, con un taglio fotografico estremamente ricercato che ne spiazza la nostra usuale percezione, trasformandoli in elementi nuovi e stranianti. Mentre i grattacieli piatti e vuoti di Marco Nemeo sono icone della nostra esistenza. La strada che attraversiamo per andare in ufficio, il palazzo che vediamo dalle finestre di casa, i grandi disegni a carboncino della giovane francese Anne Lhèritier, che ritrae i cortili dei grandi palazzi della periferia milanese, ci ricordano l’esistenza del dettaglio che non si vede, o forse nella fretta, non si guarda. Dovremmo parlare ancora a lungo dell’opera di Sabrina Muzi, che riflette sulla difficoltà delle relazioni interpersonali in una società priva di dialogo (decisamente interessanti i suoi video, in cui la corporeità assume una valenza pregnante) o del video di Zhang Qi-Kai, Mind the gap che vede l’artista-protagonista teso nell’impossibile e vano sforzo di salire al contrario una scala mobile della metropolitana londinese (metafora dello sforzo del vivere?), o ancora della ricerca sulla tecnologia e la comunicazione di massa di Franco Fiorillo (anche questa una buona opera, forse un po’ sacrificata nell’allestimento) o dell’iperrealismo dei piloti protagonisti di scorribande notturne nell’underground metropolitano di Roberto Morone.


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"EXIBART" 18 marzo 2002 (GENNY CAPITELLI)
[Zak Manzi, Napoli, Officina 99]
Più di 100mila persone sfilavano a Roma per la liberazione della Palestina. I mass media lo ignoravano, rendendo la cosa inesistente. Zak Manzi, apoliticamente ma significativamente, rendeva invece esistente un evento che non lo era...
Trecento manifesti incollati sugli edifici di Napoli e Caserta invitavano a notare che il nove marzo duemiladue sarebbe avvenuto qualcosa a firma Zak Manzi. Sui manifesti frasi diverse: Un uomo è tutto ciò che attrae di Angelo Rossi, Quello che cerchiamo è semplice di G. B. e Ogni cosa mi è distante di Lia Manzi. On line erano diffuse due e-mail. Una molto simile ai manifesti e l’altra con qualche variante e la dicitura: il centro sociale officina99 apre uno spazio espositivo al piano superiore dello stabile di gianturco napoli. La seconda: il 9 marzo alle ore 18:00 inaugura l'artista napoletano, zak manzi, che da tre anni ha rinunciato alla propria creatività avvalendosi di quella degli altri. Alcuni artisti hanno infatti permesso che zak firmasse le loro opere. La mostra in questione vede esposti i quadri di angelo rossi che imita a sua volta alcuni lavori realizzati nel '98 da zak manzi. Mittente: Officina99. Recandosi sul luogo, nulla di nuovo, tranne le sensazioni. Ci si sentiva spinti a ricercare l’evento, si osservava in ogni dove. Si riconosceva uno Zak Manzi in ogni stupidaggine, soprattutto nelle stelle rosse presenti come scenografia ai lati del palco, simili a quelle del manifesto (ma il palco era a piano terra…) e in un'opera pittorica al piano superiore. Poi alle 23 è arrivato Zak Manzi. Pochi lo hanno riconosciuto. Nessuno ha osato chiedergli nulla. E’ cominciato il concerto degli ZU e ci si chiedeva se quella Z c’entrasse qualcosa. Nulla. Zak Manzi non aveva esposto nulla. Il 12 marzo, però, durante un’assemblea ad officina 99, ha presentato un suo omaggio: un’enorme tela arrotolata. Spiegandola è apparso un bianco estremamente vissuto con una stella rossa alla sinistra della tela, ma alla nostra destra. Zak in persona ha donato quest’ultima al centro sociale occupato autogestito, sede inconsapevole di un evento artistico e da quel momento erede di una grande opera.


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"EXIBART", 21 giugno 2001 (ILARIA SANTUCCI)
[Zak Manzi, Napoli, T293]
 Uno spazio sobrio ed essenziale, in Via Tribunali 293, ospita l’ultima personale di Zak Manzi. Qui il falso, il plagio diventa oggetto d’arte...
Uno spazio sobrio ed essenziale, in Via Tribunali 293, ospita l’ultima personale di Zak Manzi. Qui il falso, il plagio diventa oggetto d’arte. La peculiarità e l’essenza dell’intera mostra consistono nel fatto che tutte le opere esposte sono frutto del genio altrui, volutamente cedute a ZaK, che firma il prodotto riuscendo a far arte senza far nulla.
Dall’insoddisfazione e dall’inadeguatezza verso i tradizionali schemi di composizione artistica nasce questo progetto che fa appello all’opera altrui. Zak Manzi. Pagina 70 Tutti coloro che vi hanno aderito, inviando un’opera per la mostra, si spogliano del diritto d’autore, rinunciano al desiderio di riconoscimento del proprio operato cedendo a Zak Manzi la propria fatica. Questo è l’intento della mostra e del suo autore: “spogliarsi del ruolo di artista creatore, rimanere tale firmando il prodotto altrui e azzerando la propria creatività ”. Sono chiamate in causa non solo le opere ma tutto quello che accompagna un prodotto artistico: le riviste, la pubblicità e tutti gli eventi ad esso collaterali. Ultima “fatica” di Zak Manzi è Flash art 2000 - 2001 realizzata da Angelo Rossi, un’opera che copia l’omonima rivista, la prima di arte contemporanea in Europa con l’unico scopo di farne arte perché copiare vuol dire accantonare le proprie idee, realizzare il realizzato. Stampata e sponsorizzata dalla MP edizioni di Napoli la tiratura prevista è di 1200 copie. L’opera è stata di proposito incelophanata in una o più pile o chiusa in scatole di ferro; così la rivista diventa scultura pur mantenendone alcuni aspetti essenziali: dalla pubblicità alle lettere al direttore. Zak Manzi. Pagina 24Alle pareti sono esposte, in stampe cibachrome o plotter 50x70, pagine estratte direttamente dalla rivista al cui interno, accanto a recensioni ed articoli di artisti e galleristi che hanno aderito al progetto “Flash Art”, sono stati inclusi anche pubblicità e recensioni di eventi ignari del progetto. Parte integrante della mostra sono state due performance che hanno accompagnato e completato l’intero percorso espositivo. L’allestimento non risponde a nessun criterio logico se non a quello di ricondurre tutto alla firma e quindi all’opera di Zak Manzi.


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"EXIBART", 16 novembre 2001 (GENNY CAPITELLI)
[Il non plagio di Zak Manzi]
Un artista fuori dal tempo e dallo spazio, eppure onnipresente...Entrato di buon grado nel novero ormai nutritissimo degli artisti inesistenti, celato in un anonimato che traduce una volontà di spersonalizzazione, Zak Manzi si è reso ultimamente protagonista...
Come scrive Tonelli (direttore di Exibart) nel suo articolo dedicato al nuovo numero di Flash Art : “da non perdere la storia del falso Oliviero Toscani”. Molto interessante, infatti, l’articolo in questione e, naturalmente, l’operazione del Toscani (quello dei sigari) o di Oliviero il Toscani o l’Olivier (che, in realtà, firmandosi in questo modo, praticamente afferma di non essere Oliviero Toscani). Un ragazzo in gamba costui, tanto che Politi (direttore di FlashArt) lo invita, nell’articolo, a prendere il suo posto. Ma chi l’ha fatto, tralascia volutamente il Politi, c’è già stato. Si tratta di Zak Manzi che, dal 15 al 30 giugno 2001 ha esposto 1200 copie di Flash Art incellophanati, imballati o incorazzati, in una parola "celati", nella galleria T293 a Napoli. Ognuno di quei Flash Art, frutto del genio di Zak Manzi (e/o Angelo Rossi), ha il valore commerciale di 120.000 lire, ed è il primo numero delle stagioni fredde di quest'anno (autunno 2000 - inverno 2001). Impossessarsi di un primo numero incellophanato e firmato (sul cellophan) dall'artista, non vuol dire semplicemente conservare un’opera d’arte, ma un pezzo da collezione. Aprendolo è una rivista molto interessante ma, chiuso, non è affatto una semplice copia, ma un opera e una rarità. Una “non copia” (costa persino 10 volte in più all’originale) … uno strano inedito. All'interno si parla di e sono annunciate mostre inedite di artisti esistenti. Inedite nel senso che, se non le avete mai viste, forse non le vedrete mai, perché molte di queste mostre sono solo immaginate per gli artisti o sognate dagli stessi e pubblicate da Angelo e Zak; altre sono vere; altre già passate. Questo stesso Flash Art è una sorta di falso inedito di Zak, perché a realizzarlo è stato Angelo Rossi. Una cosa del genere è avvenuta anche in una mostra organizzata da quest’ultimo e da Riccardo Battaglia nell'ex caserma De Martino a Casagiove (Caserta), nel 1999, dove una serie di artisti hanno realizzato inediti di altri artisti famosi contemporanei e non, quali Liechtenstein, Man Ray, Matisse, Mark Dion, Shirin Neshat, ecc.("Gia' fatto!?", ex caserma de Martino; Casagiove; Caserta; dal 26 settembre al primo ottobre 1999; catalogo: Melting Pot speciale; settembre 1999; n°31; anno V). Anche partecipare a mostre via e-mail, Zak l’ho ha “già fatto”. In maniera diversa rispetto ad Olivier, naturalmente. Ha fatto credere a molti giornalisti di aver perso una mostra interessante il cui comunicato, arrivato in ritardo (apparente), parla di un evento ormai finito. Quello che si scopre poi è che la mostra non c’è mai stata. La mostra che si è svolta fuori dal tempo, però, non si è svolta in un non luogo. E’ questo forse ad infastidire i galleristi che lo rimproverano per questo suo gesto. Emi Fontana, di Milano, è stata la galleria scelta a caso. Angelo Rossi ha fatto della sua produzione, l’opera di Zak, proprio come l’Olivier, che ha donato le sue idee al Toscani, per renderle visibili. E lo stesso avviene nel Flash Art: Politi è stato donatore involontario della sua rivista, come tramite per brillanti idee. E, a sua volta, Zak, a differenza degli inconsapevoli Oliviero Toscani e Giancarlo Politi, si offre volontariamente come tramite per rendere visibili le idee degli altri, essendo il suo nome ormai famoso. L’opera che Angelo-Zak ha pensato recentemente di fare era incendiare una galleria (col consenso del gallerista), poi ha scoperto che qualcosa del genere era avvenuta a Venezia, ma per finta: eppure le foto delle torri gemelle distrutte sembrano fotomontaggi, ma sono vere. E’ la realtà: una realtà dolorosissima. E’ questa l’immagine che Zak ha pensato di utilizzare e che appare nella rassegna stampa e che ha suscitato enorme fastidio. Zak è un’artista profondo, irriverente ma, soprattutto, davvero promettente.

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